A volte accade che quando faccio il mio lavoro mi interroghi su come possiamo aiutare le persone a conquistare una posizione di maggiore indipendenza, di maggiore autonomia. Un traguardo, questo, che implica la costruzione, spesso molto faticosa, di una presenza interna o, come si dice dalle mie parti, di un oggetto interno che non ci faccia sentire soli.
Tutte le volte che rifletto su queste cose, da un lontano passato, da una mia vita parallela, emerge il suono rassicurante e simmetrico del grande J.S. Bach con il suo Bist du bei mir (Tu sei con me), una corale che mette in musica il salmo 23 (Il Signore è il mio pastore…).
In un’ottica laica, quale è quella che mi riguarda e che riguarda il mio mondo, delle riflessioni e dei luoghi del cammino religioso rimane la grande portata antropologica e fenomenologico-esistenziale, che la religione in primis rappresenta.
Da sempre, trovandoci in una condizione di Heideggeriana Gettità1 ci siamo trovati a domandarci il senso della nostra presenza, della nostra vita, di quell’essere continuamente sospesi verso il non-ancora: di quel trovarci fuori da noi, oltre noi, che appunto chiamiamo ek-sistenza, letteralmente stare fuori, ovvero vivere in una dimensione in cui siamo connessi con gli altri ma abbiamo perso la connessione perfetta con noi stessi.
Queste tematiche, che da sempre affascinano chi come me ha la passione della filosofia o di altre scienze dello spirito, non sono a mio avviso solamente speculazioni intellettuali, non è roba da adolescenti o da qualche birra in più: rappresentano invece il cuore dell’esperienza umana, costituiscono il nocciolo pulsante che legittima dall’interno, che rende dotata di senso l’esperienza del vivere.
Da sempre, quindi, è forte in noi l’esigenza di avere la sensazione di essere pensati, di essere inscritti in un disegno più ampio che nel comprenderci ci possa portare oltre.
Da sempre dobbiamo poter pensarci non soli, dobbiamo cercare in tutti i modi di evitare la solitudine, di rifuggire il pensiero di essere soli, di non aver nessuno, che è come dire di non avere senso…
A tal proposito il filosofo e teologo Roland Barth riformula in forma riflessiva il cogito cartesiano: cogitor ergo sum. Non più penso dunque sono, bensì sono pensato, dunque sono. È il sentirmi pensato, è l’avere un testimone della mia esistenza che mi permette di esistere.
Se questo è vero per noi, persone mediamente nevrotiche, a maggior ragione lo è per le persone che seguiamo nelle relazioni d’aiuto, che proprio nella dimensione della presenza e dell’esistenza hanno riportato profonde ferite.
Arrivano da noi portando con sé inquietudine, paura, sconcerto, spaesamento: come persone che hanno perduto la via di casa, vagano nel timore-tremore più profondo cercando di ritrovare un appiglio, di recuperare le forze e il senso di orientamento.
Non riescono più a pensare, a pensarsi, a sentirsi pensati. Dunque è quella la dimensione più complessa, per certi versi esiziale: quella dello sconcerto. Sconcerto da un lato rimanda etimologicamente al non essere in accordo (concertare, mettere d’accordo), di essere in lotta con se stessi e con il mondo. Allo stesso modo, se pensiamo alla traduzione in lingua tedesca di sconcertante (unheimlich) approdiamo al senso più profondo dello sconcerto, che è il vivere fuori casa, senza una casa, senza una città, una nazione, un luogo in cui ci si può sentire pensati (heim: casa, città, nazione).
Questa è, a mio avviso, la costruzione dell’oggetto interno della presenza che faticosamente dobbiamo fare, ma che a noi professionisti della relazione d’aiuto tocca di aver già fatto prima. Certo, perché noi non siamo estranei a questo: anche noi siamo fatti della medesima materia, anche noi abbiamo paura di non farcela, di sentirci soli, di scoprire che questa esperienza che è la vita non abbia senso. Allora tendiamo a reagire alla paura attraverso il controllo, la razionalizzazione, e così, con loro, vogliamo controllare, essere presenti, intervenire.
A tal proposito vorrei concludere con questa storiella che racchiude per me il senso del nostro agire.
Un giovane monaco osserva un piccolo bozzolo nel quale faticosamente una farfalla sta cercando di uscire. Tra mille sforzi e fatiche la farfalla, dopo più di un’ora, è riuscita a fare un piccolo foro che ora sta cercando di allargare per poter finalmente uscire. Colpito dalla sua fatica, il giovane monaco, con l’aiuto di un bastoncino, arriva in soccorso della farfalla e la aiuta a uscire dal bozzolo. La farfalla allora cerca di spiccare il volo ma, ancora impreparata al mondo di fuori, muore. Il giovane monaco corre allora dal maestro piangendo per l’accaduto: «Figliolo», dice il maestro, «per quale motivo hai pensato che fosse inutile la fatica della farfalla, che fosse inutile il dolore, il tempo per uscire? Tutto questo serve alla farfalla per diventare forte, per cominciare a fare pratica di vita. Una volta forte e pronta decide poi lei quando uscire. La tua fretta, il tuo voler determinare tu i tempi e i modi, l’hanno uccisa. La sua parte è quella di lottare per la trasformazione e la nostra è quella di essere testimoni di tutto questo, perché tutto quello sforzo senza di noi non sarebbe mai esistito».
1. La condizione umana dell’esistenza è per gli esistenzialisti caratterizzata dal fatto che non scegliamo di vivere, ma ci troviamo gettati nella vita.