Attualità

L’ombra della violenza e dell’aggressività accompagna ancora il disagio psichico

Un recente articolo del «Corriere» riporta le preoccupazioni del personale infermieristico del reparto psichiatrico dell’ospedale Sacco, temporaneamente trasferito presso l’analogo reparto del Fatebenefratelli. Tali preoccupazioni non riguardano eventuali disagi organizzativi, ma la paura nei confronti dell’aggressività e della violenza dei pazienti nei confronti dei sanitari, in conseguenza della maggiore concentrazione numerica. Stupisce che questa immagine di violenza venga accreditata da professionisti che dovrebbero promuovere l’integrazione sociale di chi soffre di disagio psichico, andando ad avallare il pregiudizio, ampiamente diffuso, della pericolosità del malato mentale

«NO AL REPARTO UNICO IN PSICHIATRIA. TROPPI PAZIENTI, RISCHIO AGGRESSIONI – L’allarme degli infermieri dopo il trasloco del Sacco al Fatebenefratelli per la ristrutturazione»

Così titolava il Corriere della Sera del 15 gennaio scorso nelle pagine dedicate alla cronaca milanese. L’articolo, a firma Sara Bettoni e Simona Buscaglia, riporta i timori degli infermieri del reparto psichiatrico dell’ospedale Sacco, trasferito temporaneamente, causa ristrutturazione, presso il suo omologo del Fatebenefratelli.

Non dubito che l’aumento del numero dei degenti possa creare problemi organizzativi che vanno doverosamente affrontati e risolti, ma mi meraviglia, e mi indigna, che il personale metta l’accento esclusivamente sul pericolo di aggressioni da parte dei pazienti, andando così ad avallare il pregiudizio di pericolosità del malato mentale, profondamente radicato nell’immaginario collettivo. Stupisce che questa immagine di violenza venga accreditata da professionisti, il cui compito e la cui missione dovrebbero essere quelli di promuovere la cura, la riabilitazione e l’integrazione sociale di chi soffre di disagio psichico.

L’articolo cita, a sostegno delle proprie ragioni, la Legge Basaglia, la quale prevede un massimo di 15 letti per reparto. Ma la preoccupazione di Franco Basaglia, recepita dalla legge che porta il suo nome, era quella di poter assicurare trattamenti efficaci, che potevano essere compromessi da un’alta concentrazione di pazienti: una preoccupazione quindi di natura squisitamente terapeutica, non certo motivata da timore di violenze.

Personalmente, in cinquanta anni di attività con pazienti psichiatrici gravi, posso dire di essermi imbattuto raramente in esplosioni violente; ho conosciuto invece tanta sofferenza, tanta depressione, tanta solitudine, tanti episodi di autolesionismo, spinti a volte fino al suicidio.

In questo caso, non si prendono in considerazione esigenze terapeutiche, nulla si dice che attenga al benessere dei degenti in una situazione emergenziale, si insiste esclusivamente sul pericolo di aggressioni nei confronti dei sanitari. L’ombra della violenza si allunga ancora una volta sul malato mentale.

Seminando paura si rafforza l’ideologia che ha prodotto l’istituzione manicomiale e ha collocato i manicomi lontano dall’abitato, sottraendoli alla vista, isolandoli dal contatto con la società dei “sani”, che ha interpretato la cura essenzialmente come contenimento del paziente e la segregazione come difesa dei cittadini dagli istinti aggressivi del “matto”. Emerge una visione carceraria difficilmente conciliabile con l’idea di integrazione sociale che le discipline della psiche si pongono come obiettivo, una visione che ricorda un approccio al disagio psichico sintetizzabile in tre parole: sorvegliare, contenere, reprimere.

Psicologo e psicoterapeuta. Fondatore e responsabile scientifico di Fondazione Lighea Onlus.

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