Arriva una chiamata da una delle comunità: alle Poste una nostra paziente ha litigato con l’impiegata e sono intervenute le forze dell’ordine, si parla di un trattamento sanitario obbligatorio che poi non viene portato a termine.
“Che cosa è successo?” chiedo alla giovane collega che mi spiega per filo e per segno l’accaduto. Dopo più di un’ora di coda allo sportello l’ospite della comunità, che chiameremo Lucia, finalmente approda davanti all’impiegata che le dice, però, che lei a quel punto deve chiudere lo sportello e la invita a tornare nel pomeriggio. Lucia rimane attonita in un primo momento, poi chiede all’impiegata di servirla comunque, essendo lei oltretutto l’ultima della fila e dunque non troppo impegnativa. Al rifiuto categorico dell’impiegata, Lucia, una persona piuttosto decisa di carattere, dà in escandescenze e cerca di far valere i propri diritti in tutti i modi.
Viene chiamata a intervenire una pattuglia di P.S. che, nel registrare le generalità, apprende che si tratta di una paziente psichiatrica e dunque richiede l’intervento del 118.
In questi più di trent’anni di lavoro devo dire che situazioni come quella che vi ho illustrato ne ho viste tante e, anzi, una situazione come quella appena raccontata non è neanche la più insolita, ma mi permette di fare una riflessione su ciò che vuole dire avere una diagnosi psichiatrica.
Partiamo da un fatto: le malattie non arrivano a noi come punizione divina. È da tempo che ci siamo affrancati definitivamente da considerazioni di questo tipo. Ma le malattie, va detto, non sempre spiegano più di tanto i comportamenti delle persone, perlomeno non in modo esaustivo e incontrovertibile.
La fatica, il dolore, la paura, la vergogna, stanno alla base dei comportamenti umani; allora sarebbe interessante chiedersi che cosa succede a una persona che ha una diagnosi psichiatrica quando si trova improvvisamente disarmata della possibilità di avere un comportamento che esonda da quelle che sono le normali vicissitudini della vita.
Perché, nel caso di specie, come direbbero gli avvocati, se fosse capitato a me la polizia l’avrei chiamata io e l’impiegata avrebbe dovuto riflettere sul proprio comportamento.
Che ci piaccia o meno in psichiatria la diagnosi ha un sapore morale, finanche politico, finisce con l’espropriare il soggetto del suo diritto di protestare, di far sentire la propria voce, che improvvisamente diventa urlo grottesco e senza senso attraverso la lente deformante della diagnosi.
Allora, in conclusione e a ulteriore riprova di quanto sostengo, mi suonano chiare e argentine le parole di Franco Basaglia quando indica il potere soverchiante e senza pari della psichiatria:
Ci sono sempre stati falsi profeti. Ma nel caso della psichiatria è la profezia stessa a essere falsa, nel suo impedire, con lo schema delle definizioni e classificazioni dei comportamenti e con la violenza con cui li reprime, la comprensione della sofferenza, delle sue origini, del suo rapporto con la realtà della vita e con la possibilità di espressione che l’uomo in essa trova o non trova. (cit. Conferenze brasiliane)
Bravo come sempre. Ma arrabbiarsi mon e’un segno di debolezza che comunque ti consegna nelle mani dell’altro?
Sicuramente, quello che mi colpisce è che la diagnosi psichiatrica di fatto, nel suo oggettivare il comportamento, finisce col togliere alla rabbia quella carica di vitale oppositività che spesso contiene e che, a mio parere, ne costituisce l’elemento di valore. Analogamente, con lo stesso processo di pensiero, alcune emozioni sembra che non abbiano cittadinanza in alcune categorie (la rabbia che diventa ‘isteria’ se si parla delle donne o il dolore che diventa ‘depressione’ se si tratta dell’uomo). Sembra che lo scandalo che provoca l’emozione debba essere chiuso in qualche categoria nosografica.
Sono da poco diventata lettrice di questa interessante testata.
Credo che spesso la diagnosi costituisca uno stigma. E che la gestione di questo stigma possa diventare, per il malato psichiatrico, ancora più invalidante della malattia stessa.
Sono perfettamente d’accordo, basti pensare che un tempo i manicomi erano gestiti dalla amministrazione provinciale e non dalla sanità ed i pazienti non avevano diritti civili
Occorre arrabbiarsi quando il bisogno di affermare la propria ragione, quando viene svilito il rispetto che ci meritiamo. Credo che il marchio di “ammalato psichiatrico” sia a fuoco. Penso a come la società sia impreparata ad accogliere “civilmente” chi il proprio dolore, diversità non è riuscita/o a gestirlo o forse a scelto di non far finta che andasse tutto bene. Nella nostra civiltà appare normale mandar via chi ha atteso 1 ora pazientemente……
Purtroppo la paura di non riuscire a controllare la parte più inquieta di ciascuno di noi è spesso così forte che abbiamo il bisogno di pensare che ci sia una netta linea di demarcazione tra il cosiddetto sano ed il malato.
Io da sempre utilizzo l’espressione “mediamente nevrotico” al posto di sano, per ricordare a me stesso prima che agli altri quanti sia fragile l’equilibrio di ciascuno.
Tutti ci saremmo arrabbiati come Lucia, allora tutti siamo malati psichiatrici? O chi si arrabbia è malato? Specialmente oggigiorno che ci si arrabbia x un sorpasso, x una tv con tono alto, ecc.. cioè senza riuscire a parlare con calma e determ8nazione
la rabbia è associata spesso al pensiero di non essere presi sul serio, di essere svalutati o non ascoltati. In questo una società anonima e senza direzione come quella che viviamo può fare da catalizzatore