Attualità

I matti? Non sono più pazienti, non più ospiti, meglio clienti

In margine al convegno “Che fine hanno fatto i matti?” ecco le riflessioni dello psicoterapeuta fondatore delle comunità Lighea

Che fine hanno fatto i matti?, il convegno organizzato il 26 settembre scorso dalla Fondazione Lighea per ricordare i quaranta anni della legge 180, di cui ho già ampiamente scritto su queste pagine, è stato per me occasione di ulteriori riflessioni che cercherò qui di argomentare. Mi scuso per eventuali ripetizioni, ma mi preme ribadire alcuni concetti guida che mi stanno particolarmente a cuore

Quando, nel lontano 1984, ho iniziato, con un piccolo gruppo di collaboratori, a occuparmi di progetti di cura e riabilitazione per individui affetti da disagio psichico, partivo da un’ipotesi di lavoro frutto della mia esperienza di psicoterapeuta: mettere al centro dell’intervento comunità terapeutiche a dimensione familiare, in cui impostare programmi personalizzati che coniugassero cura e riabilitazione, e la progettualità del futuro riscattasse l’inerzia  di un approccio esclusivamente sanitario riattivando il desiderio. 

Pensavo a un laboratorio sperimentale che doveva verificare l’impostazione teorica e a sua volta incidere su di essa, modificandola, migliorandola, consolidandola.

Questo scambio di influenze teoria-prassi, prassi-teoria si può dire riuscito: alcune ingenuità sono state corrette, alcune aspettative ridimensionate, nel complesso il modello ne è uscito consolidato.

Molto abbiamo imparato. Per esempio, che le comunità terapeutiche è bene siano ubicate in quartieri del centro cittadino, dove più intensi sono gli stimoli e più frequenti le occasioni di contatti con persone “normali”. Considero infatti un residuo di cultura manicomiale la tendenza a collocare le residenze per individui affetti da disagio psichico in luoghi isolati, in dimore talvolta anche molto belle, inserite in paesaggi ameni, ma che ripropongono la logica di piccoli mondi chiusi, separati dal contesto sociale.

Negativa anche la scelta di quartieri periferici, caratterizzati dalla presenza di povertà, degrado ed emarginazione, come purtroppo si verifica in tante delle nostre città, dove un tessuto sociale sfilacciato e problematico non favorisce l’integrazione e il matto, il più diverso dei diversi, può facilmente diventare il capro espiatorio della rabbia diffusa.

Proprio l’esperienza sul campo ci ha indotto a scegliere per i nostri matti appartamenti di condomini residenziali, a stretto contatto con le famiglie che tali edifici abitano, in zone animate da una vivace vita cittadina. Analoga scelta è stata fatta per gli alloggi indipendenti nei quali vengono trasferiti coloro che hanno concluso l’esperienza di comunità.

Corollario del costante richiamo alla normalità è l’abolizione, da parte di tutto il personale coinvolto, del “camice” che, anche quando scomparso come indumento, rimane spesso come disposizione mentale di separazione tra noi e loro, tra sani e malati, tra custodi e custoditi, tra chi sa e chi patisce.

Il camice è stato garanzia di diversità e superiorità, espressione di sapere e di potere, difesa dalla contaminazione, corazza sotto la quale proteggersi. Senza camice il rapporto è alla pari, fiducia e autorevolezza bisogna conquistarsele nel rapporto quotidiano. Chi opera è costretto a misurarsi con la follia e questo lo induce a una riflessione costante su se stesso, sulle proprie emozioni e le proprie paure. Per esempio, lo porta a capire che, certo, il matto può fare paura, ma  spesso la paura non è fuori, è qualcosa che è dentro di lui e che lui proietta sul matto. 

Un’ultima riflessione sulle parole che usiamo per designare le persone di cui ci prendiamo cura.

“Paziente” implica una completa subordinazione al mio sapere: io che lo curo conosco ciò di cui ha bisogno, il suo è un ruolo passivo, di accettazione delle mie scelte.

“Ospite” marca una maggiore distanza dalla malattia, comunque indica sempre una posizione subordinata, la mancanza di una completa autonomia.

Mi piacerebbe questi nomi venissero sostituiti dal termine “cliente”, parola che attribuisce un inedito potere contrattuale a chi tale potere non ha mai avuto e ha sempre subito il volere altrui. Pensare il matto come cliente equivale a fargli compiere una metamorfosi che ne cancella lo stigma.

Psicologo e psicoterapeuta. Fondatore e responsabile scientifico di Fondazione Lighea Onlus.

2 commenti

  • Angelo Pasqualini

    Condivido totalmente la necessità di una riflessione sempre più profonda sui termini da usare, sia per quanto riguarda il linguaggio scientifico che quello comune. Non è indifferente usare “paziente”, invece di “cliente”, per tutte le implicazioni relazionali che la scelta del termine comporta. I sistemi comunicativi contemporanei tendono ad un uso approssimativo del lessico ed alla acquisizione di vari “tic” linguistici, causa ed effetto di varie tipologie e gradi di conformismo (Ricordiamoci degli studi di Salomon Asch) Salutissimi da Angelo Pasqualini

  • Silvia Agliotti

    Gentile Dottor Savuto,
    “pazienti” o “clienti”…non mi convincono!…”esseri umani in un momento ( a volte finito nel tempo, a volte perenne o infinito ) di disagio”… ma forse è troppo lunga!
    Devo dire che a me anche la voce “matti” suona sempre molto…sinistra ( ma loro…che ne pensano al riguardo? domanda interessante! ).
    Fatto ne è che “nominare” chi ha vissuto o vive in una situazione di malessere interiore è arduo, a meno che non accontentarsi di chiamarle ” persone affette da disagio psichico” che è forse la soluzione che più lascia spazio alle innumerevoli varianti e lascia anche spazio alla cura, al miglioramento, nella speranza che il tempo possa portare stati di evoluzione…oltre che…saggi consigli. Perché forse è proprio nel Tempo la chiave di volta per trovare una strada più serena, oltre che nello Spazio sempre “centrale”, come dev’essere, come lei sostiene.
    Il Tempo, “immagine mobile dell’eternità” come lo descriveva Platone nel Timeo, o Tempo come Divenire in Eraclito, mutamento e trasformazione, Panta Rei.
    Un caro e affettuoso saluto, Silvia Agliotti

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