«L’obiettivo non è solo di rifare bene e velocemente il ponte Morandi, ma di renderlo un luogo vivibile, un luogo di incontro in cui le persone di ritrovano, in cui le persone possono vivere, possono giocare, possono mangiare» (14 settembre – a proposito di un viadotto sospeso a 45 metri dal suolo che connette due gallerie).
«Qualche ignorante ancora discute la mia affermazione circa la possibilità di costruire un ponte multilivello e multifunzionale. Si tratta di gente che non capisce come una grande opera possa condurre a riqualificare, a ridisegnare, a ripensare la vocazione di un’intera area» (24 settembre – recidivo).
Il decreto su Genova «sarà migliorato. Non contestatelo perché non solo è scritto col cuore, ma anche con una tecnica giuridica così elevata che permetterà al commissario Bucci di lavorare bene senza preoccuparsi di ricorsi» (8 ottobre).
«Sapete quante delle merci italiane, quanti degli imprenditori italiani utilizzano con il trasporto principalmente ancora su gomma il tunnel del Brennero?» (9 ottobre – il tunnel non è operativo, ma in costruzione; quando completato sarà esclusivamente ferroviario).
Ho composto un florilegio delle recenti esternazioni del Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Danilo Toninelli.
L’ineffabile ministro si è affrettato a derubricare questi svarioni definendoli lapsus. E qui si rende necessaria una precisazione. Bisognerebbe che qualcuno gli spiegasse il significato della parola “lapsus” che usa con tanta disinvoltura. Proveremo a farlo noi.
Il lapsus non è imputabile a ignoranza, ma all’emergere di motivazioni inconsce. Presuppone sempre un sapere: il soggetto sbaglia non perché non sappia, ma perché la tendenza repressa sopraffà l’intenzione cosciente. A sorpresa nel discorso si apre una faglia in cui si insinua ed emerge, eludendo la censura dell’Io, la voce dell’inconscio.
In altre parole, non ci può essere lapsus laddove non c’è conoscenza.
Se quindi lapsus e ignoranza non sono compatibili, nemmeno lapsus e Ministro lo sono.
Volendo azzardare un’interpretazione più sofisticata, potremmo ipotizzare che in quelle incaute esternazioni emerga una richiesta di aiuto. L’inconscio non mente e rivela sgradevoli verità.
Catapultato da una modesta vita professionale a reggere un importante ministero, l’onorevole 5 Stelle, nonostante la sicumera che ostenta, può sentirsi inadeguato, non in grado di assolvere il compito affidatogli.
Nei ripetuti svarioni si esprimerebbe allora la voce di una consapevolezza inconscia che chiede protezione rispetto a responsabilità che l’uomo non è in grado di sostenere.
Forse potremmo addirittura parlare di sindrome dell’impotente: come colui che, incerto della propria virilità, esibisce machismo e attua avances aggressive con il risultato di venire respinto ed evitare così di mettersi alla prova, il Nostro le spara tanto grosse da non ottenere credito e da essere esentato dal realizzare quanto sconsigliatamente promesso.
Quello del Presidente del Consiglio Conte, nel discorso di insediamento del nuovo governo, quello sì che è stato un lapsus. L’oratore, docente di Diritto, la competenza sicuramente l’aveva, eppure gli scappa l’espressione «presunzione di colpevolezza», dimentica il “non”. Possiamo scusarlo pensando all’ansia, alla tensione per un discorso di esordio tanto impegnativo, tuttavia un tale lapsus da parte di chi si proclama «avvocato del popolo» lascia perplessi. Certamente non mi farei patrocinare da lui.
Il nostro Premier, nel suo look da accademico, non può competere con la fisicità sanguigna di Salvini, né con il protagonismo da balcone di Di Maio, perciò ha scelto un profilo basso, in attesa di un giorno che forse verrà.
Sempre educato, discreto, reprime il narcisismo di fondo, quello che gli ha fatto gonfiare il curriculum. Potremmo definirlo un Narciso segreto, sommesso, forse riluttante.
Per molti rimane un mistero come un oscuro accademico, sicuramente con solida preparazione professionale, ma senza alcuna esperienza politica e completamente ignoto al famoso “popolo” costantemente evocato, abbia potuto, di punto in bianco, diventare il Presidente del Consiglio, e probabilmente anche lui non sa darsene spiegazione.
Lo posso immaginare, il mattino, privo dell’abbigliamento d’ordinanza – abito scuro, camicia immacolata, cravatta in tinta, scarpe tirate a lucido – guardarsi con ansia allo specchio, assalito dal dubbio di essere come il Cavaliere inesistente senza l’involucro della corazza, e, rassicurato dall’apparire della propria immagine, dirsi con sollievo: «Allora esisto».
Il suo atteggiamento modesto, sempre controllato non deve però trarre in inganno. L’uomo si adatta alla parte defilata che gli hanno cucita addosso, attento a non prendere iniziative che possano fare ombra ai suoi sponsor, ma cova nel profondo grandi ambizioni e attende con pazienza, convinto che per lui il meglio debba ancora venire.
Il ministro Tria ama presentarsi con queste parole: «Io sono un professore». Sì, ma un professore spernacchiato e terrorizzato dagli allievi, i Dioscuri – Salvini, Di Maio – che l’hanno bullizzato. Una figura triste e dolente la sua, che ispira tenerezza. Ricorda la sorte del professor Immanuel Rath, indimenticabile protagonista del film «L’angelo azzurro», ridotto a gridare chicchirichì con una cresta di gallo sul capo.
La sua remissività nasconde una rabbia repressa dovuta all’umiliazione. Avrebbe potuto dimettersi, sbattere la porta, salvaguardando la sua dignità; non l’ha fatto e non lo fa perché ha bisogno di riscattarsi, vuole una rivincita per l’orgoglio ferito.
C’è qualcosa di eroico nella tenacia con cui non demorde, nel suo esporsi a continue sconfitte nel tentativo di recuperare autorevolezza e sanare le ferite inferte alla sua credibilità. Sarebbe intollerabile per lui rinunciare adesso, prima di ottenere un risarcimento per la propria immagine compromessa, perciò prosegue con ostinazione la lotta solitaria e senza speranza, come un timido Davide di fronte a due arroganti Golia.