Dipendono dalla tecnologia, non si sanno più relazionare se non dietro a uno schermo, sono spesso pigri e indolenti. È questa la fotografia che spesso vedo raccontata della generazione degli adolescenti, quelli che – nell’età della ricerca di una loro identità – siedono nei banchi delle scuole superiori. Tuttavia, osservando le giovani menti della scuola in cui lavoro, vedo tutt’altro quadro e mi trovo a pensare a quanto i ragazzi d’oggi cerchino, molto più attivamente della generazione che li ha preceduti, delle opportunità, delle sfide allo status quo o banalmente soluzioni alternative e brillanti rispetto ai problemi che affrontano. Sono proattivi. Non solo come reazione agli eventi, ma perché spinti da forti motivazioni intrinseche, alimentate da valori come l’ambizione, la resilienza e la curiosità.
Purtroppo, però, la narrazione che prevale è solo quella di una generazione votata alla passività della tecnologia e narcisisticamente concentrata sui propri bisogni. Il blocco, in realtà, sembra esistere più negli adulti che incontrano e con i quali si scontrano. Molti docenti, preparati e dedicati ai loro studenti, non sono però in grado di rispondere ai bisogni di discussione dei ragazzi, di uscire da quei protocolli dei programmi (da terminare necessariamente entro tale data) per concentrarsi sulla vera conoscenza. Non sono capaci di spiegare, per esempio, che è vero che la nostra democrazia non avrebbe senso di esistere senza le riforme di Pericle, ma che da esse si è riadattata ed è cresciuta, e come lo ha fatto. Non sono capaci di accettare un tema scritto al computer, un testo letto da un ebook, una ricerca presentata su moderni software o una lezione in formato podcast, perché non rientra in quello che per loro è didattica. O perché sono linguaggi che non conoscono.
Ecco che diventa un problema insormontabile essere proattivi in un contesto che invece si rivela respingente, se non inattivo o stagnante. Allora, ho visto che sono i giovani stessi a trovare dei modi alternativi per connettersi, condividere idee e amplificare le proprie voci. Utilizzano piattaforme online per mobilitare il cambiamento, per connettersi tra classi, per condividere regionalmente dei progetti, chiedono come poter sensibilizzare su questioni importanti e costruire comunità di individui con valori simili. Con un impegno e un’energia che non ritrovo nella fotografia iniziale, quella degli adulti che lamentano il loro non appartenere a uno schema conosciuto.
A me pare che si ritrovino in un mondo, quello della scuola, che vuole restare immobile e quindi sterile, e che non permette loro non solo di coltivare questo furor vivendi ma neppure di sperimentare quel che sentono forte e prevalente, a discapito di quello che la società impone. Nel contesto scolastico si chiede loro di essere i migliori, a discapito dell’altro, di non interessarsi al di fuori di quel compito o quella verifica, di non avere una voce ma restare legati al loro senso di impotenza.
Ecco allora che, se si chiede loro “cosa sia realmente giusto”, rispondono che “non vedono come le cose potrebbero cambiare”. C’è una forza più potentemente radicata in loro, rispetto a quella del cambiamento: il senso di rassegnazione, che fa emergere atti di reale disillusione e disumanità che riflettono il loro sentirsi poco considerati come esseri umani.
In classe persiste l’idea che per gli insegnanti gli alunni non siano altro che etichette, numeri dei quali poco importa e per i quali non si deve essere ma solo fare e fare bene.
Se anche i docenti falliscono nel loro ruolo di guide, i giovani non possono far altro che sostituirli proprio con la tanto criticata tecnologia che, però, non accoglie e non indirizza nel modo corretto la loro emotività e le loro risorse. A casa, intanto, i genitori si mostrano sempre più preoccupati che i loro figli siano bravi a scuola e performanti, e troppo spesso dimenticano di dare linfa vitale alla relazione, all’ascolto e alle convalide emotive. Queste sono le uniche che possono realmente educare i ragazzi a familiarizzare con le proprie emozioni, identificare e gestirle in modo funzionale per accrescere la comprensione di sé e del mondo circostante.
È qui, in queste carenze, che io vedo uno dei fattori che contribuiscono a creare quei casi in cui ragazzi giovani, di fronte ad atti di pura e orribile violenza, per esempio, si trovano a filmare un’aggressione invece che chiamare i rinforzi, o addirittura a realizzarne una per sentirsi vivi e provare emozioni. E, forse, proprio dall’ascolto e dal contatto con le emozioni avrebbe senso ripartire.