Entra guardandosi intorno, inquieto. Siede in silenzio poi, improvvisamente: “Dottore, ma lei ce l’ha un bunker?”. Rimango spiazzato, incredulo. Poi rifletto che non è particolarmente strana una simile reazione in un paziente ipocondriaco, con spunti paranoici.
Nel pomeriggio però, attraversando il centro città in taxi, la stessa domanda me la sono sentita rivolgere dall’autista della vettura: “Lei ce l’ha un rifugio antiatomico? E lui non era un paziente (almeno mio).
La guerra in atto, le cui immagini scorrono continuamente sugli schermi di casa e sui social e che guardiamo come un film dell’orrore, ha colonizzato il nostro immaginario, invaso i nostri sogni.
Un’ansia da attesa si è impossessata di tutti noi, alimentata dall’allarmismo di alcune forme di comunicazione. È stato violato anche il tabù del nucleare: dietro i carri armati russi ha ripreso vigore il fantasma sinistro del suo uso in funzione bellica. Nonostante gli sforzi per distrarci, il pensiero, costante, ossessivo, perturbante, è sempre lì: l’incipit di ogni mia seduta è ormai dedicato alla guerra, che in questo ruolo ha sostituito la preoccupazione per il Covid, presente fino a ieri. Solo dopo l’approccio iniziale le persone prendono a parlare dei problemi che le hanno portate da me.
Anch’io cerco di distrarmi con occupazioni banali e pensieri divaganti. Ieri sera, per esempio, ho scelto di guardare un bel film di Woody Allen. Ma il piacere della visione mi è stato guastato da un sordo senso di colpa per essermi “divertito” invece di “soffrire” seguendo i notiziari dal fronte.
Penso che tale sentire accomuni molti di noi, “colpevoli” di godere della situazione di privilegio di vivere una vita non sottoposta a minacce, in una parte del mondo che ci assicura libertà e certezza del diritto.
Forse proprio tale profondo senso di colpa non è estraneo allo straordinario coinvolgimento emotivo suscitato dal conflitto ucraino. Ad altre guerre altrettanto feroci abbiamo assistito in tempi recenti, altre volte ci siamo indignati, altre volte abbiamo pianto le vittime, ma mai l’onda emozionale è stata così forte.
Certo, in questo caso si combatte nel cuore dell’Europa, è stato evocato lo spettro della terza guerra mondiale, lo scontro viene narrato come contrapposizione di valori fondamentali: l’identificazione è maggiore. Sentiamo di non fare abbastanza, ci viviamo come egoisti, incapaci di rinunciare ai nostri privilegi, in qualche modo responsabili.
Come reagire a questo immaginario tragico, in cui si intrecciano senso di colpa e paura? Purtroppo non ho ricette. Penso solo che questo sia il momento di impegnarsi seriamente in ciò che ciascuno sa o può fare per contribuire a rendere il mondo migliore.
Per quanto mi riguarda, ho certezza di un’unica cosa: non mi procurerò un bunker.