La passione morbosa per la madre – una passione, purtroppo, ricambiata – dava alla nostra vicenda familiare il sapore di una tragedia greca. Ma l’accostamento con Edipo non la rendeva per questo meno sgradevole, terribile, contornata com’era da una miriade di piccoli, gravi fatti che non potevano essere più considerati come la conseguenza d’un carattere ribelle, visto che lasciavano intravedere i sintomi d’una malattia il cui nome un padre pronuncia con terrore: pazzia.
Quando ci si trova al centro d’una inestricabile vicenda si è soliti tornare indietro con la mente per tentare, attraverso un replay della propria vita, di riprendere in mano il corso degli avvenimenti che sono sfuggiti e che non si riescono più a controllare.
Nella breve storia della mia famiglia a che punto avevo sbagliato?
E gli errori erano stati soltanto miei?
O era piuttosto tutta la mia famiglia un vero e proprio equivoco?
Certo l’infanzia di mio figlio Gennaro era stata irrequieta. Il suo rapporto con la scuola, ad esempio, era stato molto ma molto difficile, tanto è vero che si era presa la licenza elementare quando ormai aveva 12 anni compiuti. Abituato come molti a cercare la causa di ogni cosa, attribuivo questi ritardi alla sua difficile nascita avvenuta con l’aiuto del forcipe anche se poi mi veniva in soccorso la vecchia regola, pur sempre valida, secondo la quale i tempi di “maturazione” variano da individuo a individuo.
«Crescendo cambierà», mi ripetevo.
Ma anziché portare soluzioni, la crescita moltiplicò i problemi.
Attratto più dall’irregolare e dall’insolito che dall’ordinario e dall’usuale, appena varcata la soglia della scuola media il ragazzo s’imbrancò in un gruppo di giovani irrequieti come lui. E il sodalizio, fuori da qualsiasi controllo dei familiari, non poteva non produrre risultati deleteri. Così, quando era ancora quattordicenne e frequentava la scuola media, una mattina si recò a scuola con il vecchio archibugio del trisavolo e, forse sfidato dai suoi amici, si presentò con l’arma spianata al preside sollecitando non so più bene quale rivendicazione.
Ciò che per un padre è una perdonabile marachella, per la legge può essere una rapina: un reato che il codice punisce severamente a meno che non si trovi una scappatoia. La nostra, complici giudici, avvocati e vittima, si chiamò agitazione psicomotoria, il malessere di cui qualche volta era stato assalito Gennaro e che sembrò a tutti il pretesto più valido per sottrarlo al carcere e per affidarlo a una casa di cura per un periodo di due anni.
Mentre davo a intendere che mio figlio fosse un malato da curare ero fermamente convinto della sua sanità mentale e certo che quella pietosa bugia dovesse servire solo a imbrogliare la legge.
E, invece, non facevo altro che ingannare me stesso.
Due anni dentro una clinica servono forse a recuperare il proprio io a chi ha smarrito se stesso. Ma per un ragazzo che non sa cosa cercare, né dove e neppure cosa cercare, 24 mesi trascorsi dentro un ospedale rappresentano una assurda privazione della libertà, una interminabile fila di giorni vissuta tra noia, frustrazione e rabbia. E, insofferente delle regole, Gennaro si allontana sovente dalla casa di cura e fa rapide puntate a casa, in Campania. E qui le braccia della madre, che nella generalità dei casi offrono come un porto sicuro, serenità e dolcezza, gli si stringono al corpo come quelle d’una amante e gli provocano turbamenti che lungi dall’essere rimossi vengono invece alimentati e lussuriosamente coltivati.
Questo terribile, sconvolgente risvolto, mentre da un lato mi diede la misura della vasta proporzione della mia disgrazia familiare, dall’altro mi offrì il pretesto per cercare di capire ancora una volta la diversità di questo mio figlio.
Poteva essere, mi domandavo, una conseguenza della insaziabile fame di sesso della madre che non s’arrestava neppure davanti all’incesto e che i medici definiscono delirio erotico?
Oppure era il risultato dello stesso mio matrimonio, una unione combinata tra la figlia del padrone e me, capo operaio, dalla quale è nato, forse senza amore, questo ragazzo?
Ancora una volta non mi rimasero che i dubbi.
Di certo ci fu che la profanazione del puro rapporto madre-figlio convinse il ragazzo che tutto fosse lecito nell’ambito della famiglia e mise gli occhi anche sulla sorella che dovette essere allontanata e mandata a studiare in Svizzera per sottrarla alle sue attenzioni. Sarà stato per i miei interventi sempre più energici dopo la scoperta delle sue mire verso la sorella; sarà stato perché la madre, per sfogare la sua inesauribile lascivia, non aveva esitato a servirsi dei suoi amici, sta di fatto che Gennaro, tra i 18 e i 20 anni, diventa un vero e proprio caso clinico e le sue irrequietezze rasentano il codice penale.
Ricoverato in ospedale viene espulso dopo un paio di mesi.
Trasferito in un’altra clinica prima ruba il peculio di un paziente e quindi si spaccia per medico riuscendo a visitare alcuni malati come lui.
L’orecchio sempre incollato a una radio portatile transoceanica di grandi dimensioni, va in giro per la clinica e fuori tenendo il volume altissimo, assordando chi gli sta vicino.
Una volta si è persino recato presso un concessionario di automobili e ha prenotato una Ferrari.
La immancabile resa dei conti che segue ogni suo exploit me lo mostra pentito ma irrimediabilmente irresponsabile.
«Ma perché fai queste cose?» gli domando scoraggiato e avvilito.
«Così, perché mi viene di farle», risponde disarmato, e irrecuperabile.
So per certo che ai momenti di grande esaltazione, che culminano nelle sue imprevedibili e spesso illegali trasgressioni, ne seguono altri di angoscia e di pianti. Ma non sono che parentesi tra un inganno e l’altro, tra una bravata e l’altra; tra l’ultima – sì, chiamiamola col suo nome – pazzia, e la prossima.
Da qualche tempo la sua inquietudine non ha vistose manifestazioni come in passato. Forse questo dipende dalla nuova operatrice che lo ha in cura.
Forse, come accade in certi vulcani, questa è la sua fase di inattività.
Forse, forse, forse…