Una volta ho salvato un cane che stava annegando.
Un bulldog francese nero: testa grossa, gambe piccole, non un grande nuotatore. Era un pomeriggio di primavera. Passeggiavo con mia figlia in riva al laghetto del parco che abbiamo vicino a casa. Una vecchia cava oggi piena di acqua, pesci, tartarughe e anatre. Il cane si avvicina a salutarci, il padrone si ferma a fare due chiacchiere.
Mi racconta del suo cane: «…ho avuto tanti cani sa? Ma nessuno come questo. Sono cani molto affettuosi che si legano tantissimo al padrone. Non ne farei mai a meno.»
Me ne parla come se parlasse di una persona. Io non mi intendo di cani, a quel tempo non ne avevo ancora mai avuti. Ci salutiamo. Io e mia figlia ci incamminiamo verso casa. Alle nostre spalle sentiamo il ragazzo chiamare il cane. Nel girarmi vedo il bulldog correre verso la riva dove degli anatroccoli stanno nuotando. Fa un salto e si tuffa in acqua.
«Alice guarda il cane che gioca con gli anatroccoli». Il cane non riemerge. Il ragazzo inizia a gridare e a chiedere aiuto. Mi avvicino velocemente. Il cane è in acqua a due metri dalla riva, cerca di stare a galla. Il ragazzo in preda al panico mi chiede di aiutarlo perché non sa nuotare. Il cane lentamente va sotto il livello dell’acqua. Sta annegando. Mia figlia inizia a piangere. Mentre mi tolgo le cose dalle tasche dei pantaloni, mi ricordo che mi ha sempre fatto paura il lago, mentre mi maledico mi tuffo. Nei libri e nei film nei laghi ci sono sempre cadaveri o esseri misteriosi che ti trattengono e ti portano in profondità.
Penso che avrei dovuto fare finta di niente e andarmene. Chi mi obbliga a salvarlo? Penso al cane che sta annegando. Penso che prenderò una brutta malattia. Penso al cane che sta annegando. Mentre nuoto verso il cane penso a non morire. Prendo il cane dalla collotta. Bagnato pesa un quintale. Devo immergermi completamente per spingerlo fuori. Sulla riva ad accogliermi un piccolo gruppetto di curiosi che mi ringrazia. Mia figlia piange. Torno a casa completamente bagnato con mia figlia ancora singhiozzante, pensando a terribili malattie e infezioni. Non sono mai stato un eroe, non faccio cose eroiche, non è quel genere di cose che mi interessa fare.
Cosa è successo? Mi chiede mia moglie. «Non sono riuscito a guardare morire un cane. Tutto qui».
Corro a farmi una doccia.
Oggi vi osservo girovagare famelici senza meta sui social. Vi leggo incitare allo stupro e commentare la qualunque con parole e immagini così violente che Alex Delarge e i suoi Drughi sarebbero orgogliosi di voi. Vi immagino così con un sottofondo di Beethoven che scorrazzate allegramente sulle pagine delle testate dei quotidiani a dare sfogo alle vostre bassezze giudicando la scelta di salvare una vita come qualcosa che sembra violentare alcuni di voi. Un gesto raro che al contrario fa sperare che esistano ancora degli esseri umani che abitano questa terra perché sui social ne abbiamo perso le tracce.
Mi piacerebbe avere una barca e invitarvi tutti a fare un comodo giro a largo, lontano, dove quando ti guardi intorno c’è solo mare e nient’altro. E vorrei imbattermi in una di queste imbarcazioni di fortuna piene di coraggiosi disperati la cui unica speranza è quella di arrivare vivi sulla terra ferma. Ignari della vita che li aspetta e certi della morte a cui sono fuggiti. Dovremmo stare lì, belli e abbronzati con un freschissimo cocktail in mano a guardarli morire. Uno a uno, uomini, donne e bambini. Lentamente. Inghiottiti dal mare che senza nessuna empatia continua a essere quello che è. Dovremmo stare lì a guardare perché la Legge dice che se li salviamo rischiamo noi la galera. Perciò meglio vedere di nascosto l’effetto che fa, come direbbe canticchiando Janacci. Solo per capire se ancora dentro di noi risuona qualcosa di umano. Parliamo di questo no? Esseri umani. Non di nazioni, confini, politica, economia o altro. Parliamo di anime che abitano sotto lo stesso cielo.
Non sono un uomo di legge e nemmeno un politico, ma questo decreto più che farmi sentire al sicuro mi fa sentire solo e spaventato. Vi ringrazio per la protezione, ma da voi chi ci protegge?
Nel mio lavoro di psicologo per prendermi cura delle persone ho bisogno di “vederle”. Non solo con gli occhi. Di sentirle, capirle e per farlo, qualcosa di loro dentro me deve risuonare, altrimenti è il buio. Non mi permetto di dare indicazioni ai politici in merito alle leggi, riguardo cosa e come scriverle. Ma se nel guardare un uomo che rischia la vita non sentite nulla, qualcosa non va. O meglio se l’unica cosa che vedete sulle quelle navi che arrivano in acque italiane non sono le persone, il loro grido di aiuto, la sofferenza e la disperazione ma solo una minaccia, qualcosa non va.
«Una soluzione c’è sempre» ripete rassicurante mia moglie ai nostri figli quando devono affrontare un problema, grande o piccolo che sia. Questo decreto è tante cose ma non vedo soluzioni. Eppure penso che almeno una soluzione diversa ci sia. Forse dovremmo fermarci a riflettere prima di agire limitando, chiudendo, vietando e cercare dentro di noi una soluzione capace di vedere realmente cosa sta accadendo e chi sono queste persone. Questo articolo vuole essere una provocazione oltre uno spunto di riflessione. Oggi ho due cani e uno di questi è un bulldog nero. È arrivato così dopo diversi anni ma è arrivato. Datemi pure del buonista, commentate senza pietà con il vostro odio, io vi aspetto volentieri nel mio studio per parlare delle vostre paure che vi fanno trincerare dietro l’illusione di una sicurezza, la stessa di quando da bambini la notte accendete la luce della vostra abat-jour per vedere nel buio.
Chiudo con queste parole. Riflettiamo. Le soluzioni sono dentro, non fuori.
«Quando si è fatto tutto quello che si poteva fare, non rimane altro che quello che si potrebbe fare ancora, se si sapesse. Ma quanto sa di se stesso l’uomo?»
(C. G. Jung, Gli archetipi e l’inconscio collettivo)