Qualche mese fa è salita agli onori (o agli orrori) delle cronache una vicenda terrificante: un branco di giovani, quasi tutti minorenni, ha vessato, torturato, umiliato e picchiato un anziano disabile di Manduria fino alla sua morte, dolorosa non solo per le ferite inferte, ma anche perché solitaria e disperata.
Colpiscono non solo la assoluta mancanza di freni inibitori e la brutalità di questo branco, ma anche un dettaglio raccontato dai giornali giorni dopo, quando ormai i colpevoli erano stati arrestati: secondo fonti della difesa, i ragazzi si sono definiti “dispiaciuti”.
“Sentimento di chi è più o meno gravemente addolorato o amareggiato; sentire afflizione, amarezza, dolore, pena”. Questa la definizione che il dizionario Treccani dà della parola “dispiacere”.
Voi per cosa vi sentite dispiaciuti? Cos’è che vi causa dispiacere?
Io personalmente mi rammarico sempre quando arrivo tardi a un appuntamento, costringendo qualcuno ad aspettarmi (succede spesso, e sono davvero dispiaciuta); mi è dispiaciuto sapere che il figlio di amici ha avuto un debito in pagella; mi piange sempre il cuore nel vedere persone anziane chiedere l’elemosina agli angoli delle strade; ho provato dolore quando ho saputo che un mio paziente aveva un cancro alla prostata. Questi sono alcuni dei miei dispiaceri e ci sono tanti altri motivi e occasioni per cui, normalmente, ci si sente dispiaciuti.
Ma si può essere ‘dispiaciuti’ per aver torturato, vessato, umiliato e portato alla morte una persona, per di più indifesa?
Si tratta con ogni probabilità di parole messe in bocca ai colpevoli dai loro avvocati alla ricerca di sconti di pena; ma resta disarmante la leggerezza di questo termine. Occorre, in generale, ridare il giusto peso alle parole, che devono riflettere ciò che pensiamo e proviamo, e non lo dico solo da professionista che con le parole ci lavora.
“Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!”: così diceva Nanni Moretti in Palombella rossa. Ed è vero, perché le parole prendono sostanza nei fatti e quello che diciamo o non diciamo, o il modo in cui lo diciamo, ha delle conseguenze sul nostro interlocutore. Proviamo a pensare a quanto ci sia tremata la terra sotto ai piedi la prima volta che qualcuno ci ha detto: “Ti amo”; o all’emozione che chi è genitore ha provato nel sentirsi chiamare per la prima volta mamma o papà. O al desiderio di scomparire dalla faccia della terra quando ci hanno detto: “Mi hai deluso”. O al magico potere liberatorio di un “vaffa” pronunciato al momento giusto. E dopo aver richiamato alla mente queste sensazioni, proviamo a pensare a quanto ci si possa sentire “dispiaciuti” dopo aver seviziato una persona.
Le parole sono importanti perché danno un senso a quello che ci succede, e possono cambiare la vita delle persone; avere cura di ciò che si dice, dei termini che si usano, non è pedanteria, ma rispetto nei confronti di noi stessi e dei nostri interlocutori. Sottovalutare il potere della parola è sottovalutare la nostra stessa umanità, perché il linguaggio, la capacità di esprimere e rielaborare quello che vediamo, che proviamo, che sentiamo, è ciò che ci distingue dagli animali.
Io credo che alla base di questa vicenda e del “dispiacere” successivo ci sia una profonda lacuna interiore, un mancato contatto tra la testa e la pancia, che se drammatico quando riferito ai componenti del branco, diventa surreale quando sono gli avvocati a far sapere quanto gli assassini siano “dispiaciuti”, soprattutto alla luce dei video girati dal branco stesso, in cui si vede quanto questi ragazzi si divertissero nel prendere a calci la povera vittima. Proprio vero che in casi simili il silenzio è la scelta migliore.
Per rivalutare la funzione e il peso della parola occorre partire da subito, dalle basi, da quella che è una vera e propria alfabetizzazione emotiva, cioè la capacità di distinguere gli stati emotivi propri e altrui e di nominarli, usando parole per esprimerli in maniera adeguata e funzionale; è una capacità che si apprende sin da piccoli, nelle interazioni del bambino con le sue figure di riferimento, che gli spiegano ciò che accade attorno a lui e i comportamenti altrui usando termini riferiti agli stati mentali. Questo continuo riferimento al mondo emotivo proprio e altrui consente al bambino prima e all’adulto poi di immaginare sé stesso e gli altri in termini di stati mentali, comportandosi di conseguenza: quando all’altro vengono attribuiti emozioni, vissuti, lo si personifica; al contrario, se non si vede nell’altro un mondo emotivo, lo si rende un oggetto. E con un oggetto si può fare ciò che si vuole, quindi anche torturarlo e ucciderlo, perché non se ne immagina la sofferenza e non si vedono la portata e le conseguenze delle proprie azioni su di lui.