“Queste sono le chiavi della porta esterna, poi quelle del reparto, quelle dello studio, degli armadi, della scrivania… Ah, non dimentichi le chiavi del bagno!”
Era il mese di giugno 1999 e mi accingevo a prendere servizio presso il manicomio di Como; chiavi, un sacco di chiavi, chiavi fredde rumorose, pesanti…
Dovetti anche comprarmi un portachiavi particolare perché altrimenti rischiavo di rompermi le tasche dei pantaloni.
Penso spesso a quel periodo e a come fu per me estremamente importante; la regola delle chiavi (così mi piace chiamarla ora) scandiva tutta la giornata in manicomio. Mi colpiva però particolarmente la singolare affezione che ciascuno aveva per quel mazzo di chiavi che segnava simbolicamente l’inclusione nella casta di quelli che curano, nella casta di quelli che hanno una proprietà… già perché il manicomio era il luogo o meglio diremmo il non-luogo in cui solo la casta dei possessori di chiavi poteva ambire a qualcosa di personale. Letti, vestiti, posti a tavola, nulla di questo apparteneva a qualcuno dei pazienti, massa informe proprietaria solo della propria malattia.
Nel mondo in cui, come ci direbbe Heidegger, “ognuno è l’altro e nessuno è se stesso”, la differenza tra il normale e il folle alla fine era un mazzo di chiavi.
Io le ho sempre detestate le chiavi, le dimentico spesso, le confondo e sono costantemente sotto la pressione del “ricordati di chiudere!” Per me la regola delle chiavi fu una specie di condanna per contrappasso di Dantesca memoria.
Una volta le persi in reparto e dopo alcune ore di ricerca per poter uscire, fui costretto a chiedere aiuto a un vecchio infermiere che mi suggerì di tenerle al collo come faceva lui.
Finisce la triste stagione del manicomio e debuttiamo nella nuova era del Centro Psico Sociale, presidio territoriale della psichiatria di comunità (almeno in teoria).
Una mattina di inverno mi presento in CPS e, provato dalla nebbia milanese e da una breve ma intensa escursione in moto chiedo a un’infermiera: “Scusi mi può indicare il bagno?”; la mia interlocutrice mi esamina a fondo e non cogliendo probabilmente sufficienti indizi mi chiede: “Signore o dottore?” Colto da un improvviso guizzo di creatività, ispirato ovviamente da una buona dose di irritazione, rispondo: “Supervisore”.
Lei mi guarda per alcuni interminabili secondi, pensierosa, o almeno a me sembra, poi sentenzia: “Vabbè la considero dottore, venga!” E mi conduce al bagno del personale.
Io pensavo che la mia pipì potesse essere depositata in un luogo comune, invece mi ritrovai ad avere a che fare di nuovo con la regola della chiave: anche la pipì se è pipì di dottore deve avere un luogo consono in cui finire con relativa chiave di accesso; mi sono immaginato che anche a livello fognario ci siano dei percorsi riservati, con accessi segreti ma comunque contrassegnati da chiavistelli.
Proprio noi che abbiamo studiato e conosciuto l’anonimato e la spersonalizzazione della malattia, l’angoscia che fa sentire senza pelle, indifesi e piccoli i nostri pazienti, la rabbia di essere malattia e non persona, proprio noi dobbiamo cedere alla ritualità della divisa, della regula delle chiavi (regula alla moda di san Benedetto), come se soffrissimo noi della mancanza di identità e volessimo ricavarla schiacciando il sofferente.
Passando di chiave in chiave a mio avviso ora abbiamo a che fare con serrature che nel tempo si sono trasformate in prassi, ritualità, procedure, modi di dire e di fare.
Il medico che si rivolge usando la seconda persona singolare per parlare al paziente mentre questo gli si rivolge deferente con il “lei” configura ancora una volta una asimmetria, una mancanza della chiave giusta.
Occorre a mio modo di vedere riprendere la relazione da dove la abbiamo lasciata: da una dimensione in cui ciascuno ha la proprietà su di sé, in cui porta all’altro la sua ferita ma anche tutto il peso del suo essere, tutto il valore della sua esistenza.
Sospendere il giudizio vuole dire innanzitutto riconoscere all’altro alterità e valore, a prescindere dalla condizione in cui si trova, dalla sofferenza che ha, dal bisogno che porta.
Per quanto mi riguarda penso di avere sempre promosso il valore della relazione, consapevole che ciò che cura non è l’asimmetria ma al contrario la restituzione di dignità e responsabilità, nel rispetto di una differenza di ruolo che in fondo non ha bisogno di altro potere.
A ciascuno dunque le proprie chiavi per poter aprire e non chiudere, per riuscire a includere e non discriminare.