“E quindi tu cosa fai nella vita?”
“La psicologa.”
Da questo momento in poi, si apre un variegato ventaglio di domande e affermazioni che ogni psicologo si è sentito rivolgere almeno una volta nella sua carriera e che la dice abbastanza lunga su come, oggigiorno, viene considerato chi si occupa di quel terreno aleatorio e misterioso che è l’essere umano e le sue relazioni:
“Allora devo stare zitto, sennò chissà come interpreti quello che dico!”
“Allora devo stare zitto sennò pensi che voglia uccidere mio padre e andare a letto con mia madre.”
“Davvero sei psicologo/a? Senti, a me capita sempre di sognare di volare/ di annegare/ di perdere i denti/ gli scarafaggi/ di gridare senza emettere suono/ di tradire mia moglie/ di essere tradito/ di uccidere il mio capo… Secondo te cosa vuol dire?”
A me personalmente, oltre a questi esempi comunissimi, sono successi altri due episodi che ritengo valga la pena raccontare, perché alquanto emblematici: una volta, a una festa di famiglia, un anziano parente di parenti, un uomo colto e raffinato, mi si avvicinò con aria furtiva e: “Ma quindi studi psicologia? Ma allora secondo te la Franzoni è colpevole o innocente?” Un’altra volta, un ragazzo mi mostrò la foto di un suo amico, una banalissima foto di un ragazzo che sorrideva alla fotocamera: “Ma tu che studi psicologia: ma secondo te è gay?” Queste due vicende mi sono accadute non dopo anni di lavoro, ma quando mi ero appena matricolata alla facoltà di psicologia: sembra quasi che, nell’immaginario di molte persone, già l’atto di iniziare a frequentare le lezioni di psicologia conferisca dei superpoteri mistici.
Complici anche una serie di colleghi ospiti in televisione intenti a elargire apparenti perle taumaturgiche adatte a tutti i problemi e a fare diagnosi buone per tutte le stagioni e numerose serie televisive con protagonisti psicologi quasi soprannaturali che, squadrando in viso il reprobo e notando un impercettibile tremolio del labbro inferiore verso sinistra mentre questi racconta della marmellata della mamma, capiscono che è lui il serial killer di vecchiette che la polizia sta cercando, la professione dello psicologo ha assunto un’aura di fascino e mistero. Sembra che la visione abbastanza comune che la gente ha dello psicologo si avvicini molto a una sorta di Mary Poppins della mente: una figura magica di cui tu non sai niente, ma che sa tutto di te e che con una parolina magica e uno schiocco di dita ti riordina la testa come la fantastica governante riordinava la cameretta dei fratelli Banks.
Questa immagine piuttosto stereotipata della professione conduce a una serie di aspettative connesse alla psicologia, che sono tutte legate a un tema fondamentale: la fiducia.
Quando si pensa allo psicologo come a colui che legge nel pensiero, gli si attribuisce il grande potere di sapere cosa è meglio per noi, di decidere della nostra vita; ci si aspetta che già durante il primo colloquio ci abbia capiti, inquadrati e che quindi sappia già che consiglio darci per farci tornare come eravamo prima. Una moderna evoluzione dello stregone, che ha studiato per anni delle tecniche per far stare meglio le persone.
Oppure, al contrario, si guarda allo psicologo con sospetto e diffidenza, come se il suo silenzio mentre ci esponiamo gli servisse a trovare un modo per manipolarci, o il fatto che la psicologia sia essenzialmente una cura della parola serva a mascherare che lo psicologo si perde in un mare di chiacchiere e alla fine non conclude nulla, perché è impossibile guarire una persona parlandoci. Certo, magari uno si sfoga, però può farlo col suo migliore amico, che non gli chiede 80 euro in cambio.
O ancora, si boccia lo psicologo con quel narcisismo al contrario tipico di coloro che si sentono dei casi disperati, che nessuno potrà mai comprendere e sotto sotto, magari, ci gongolano pure.
Quindi o ci si affida completamente, o non ci si affida proprio, in entrambi i casi attribuendo allo psicologo una grandissima responsabilità: quella di prendere la nostra vita in mano e restituircela cambiata.
Chi si affida completamente lo fa aspettandosi che lo psicologo gliela riconsegni come era prima di stare male (ma vi svelerò un segreto: non si torna mai come si era prima), o comunque in una versione migliore; chi non si affida, invece, probabilmente teme che lo psicologo gliela restituisca in una versione peggiore, magari dopo aver scoperchiato un vaso di Pandora di problemi che nemmeno pensava di avere.
Tempo fa lessi una definizione di quello che fa lo psicologo che mi colpì molto per la sua semplicità e delicatezza, nel romanzo Amabili resti di Alice Sebold: una delle protagoniste, alla fine della vicenda, diventa psicologa e aiuta i suoi pazienti a mettere in ordine la mano di carte con cui si sono ritrovati a giocare la loro partita (le parole erano più o meno queste).
La verità, quindi, è che lo psicologo non è mister Wolf, che risolve problemi, e che il grosso del lavoro, alla fine, lo deve fare il paziente: lo psicologo gli sta a fianco, per aiutarlo a percorrere un pezzo di strada tortuoso, assistendolo mentre trova un percorso più agevole o un modo più efficace e meno doloroso di attraversarlo. Forse è proprio questo che spaventa dello psicologo e del fatto di andarci: scoprire di avere tutte le carte in regola per cambiare qualcosa, delle risorse che nemmeno ci si aspettava di possedere e il potere di giocare una partita diversa. Perché da questo grande potere derivano grandi responsabilità.