“Zarathustra non cammina… danza, non parla… canta”, così Nietzsche descrive le caratteristiche dell’uomo del futuro, dell’oltre uomo.
Interessante passaggio questo come d’altra parte tutta la produzione di un autore che più di altri si è portato ai confini della realtà e talvolta ne è rimasto fatalmente imprigionato.
Riportandola a oggi mi sembra che Nietzsche voglia dirci: occorre rinunciare in molti passaggi della vita a procedere per linee rette, a un parlare sicuro e senza dubbi.
In un’epoca di urla e di ritorno al passo dell’oca il filosofo tedesco ci suggerisce che nel rinunciare alla sicurezza e nel procedere rapiti dal sentimento anziché dal logos ci si aprono molte più strade e molte possibilità di cambiamento.
A pensarci bene la nevrosi non è altro che il conflitto perenne tra ragione e sentimento, tra il dire e il fare, tra la ricerca di coerenza e il perdersi nel sentire.
Nella riabilitazione e nella gestione di pazienti complessi e molto sofferenti la parola nietzschiana dà, mi sembra, una indicazione precisa su come procedere, su come sintonizzarci sulla lunghezza d’onda della follia.
Certo il rischio è sempre quello di perdersi, di cadere, di sbagliare strada, di trovare porte chiuse e situazioni complicate in cui dare una risposta non sarà semplice; d’altra parte
fare questo nostro bizzarro mestiere vuole dire amare le domande e non le risposte.
La scienza da sempre ama le risposte, dunque non può che cadere di fronte alla parola claudicante, al passo dell’ubriaco.
Imprevedibile, ingestibile, paradossale, il discorso della follia ci rimanda a un mondo in cui tutto è e non è al contempo.
Resistendo dunque alla tentazione di separare il grano dal loglio, la fenomenologia (filosofia, e non scienza, che si propone di parlare alla follia) ci insegna a contemplare con occhi di bambino, non giudicanti o indagatori ma solo divertiti e curiosi, ciò che davanti a noi si presenta.
Certi nostri colleghi seri a sentire questi discorsi si sentiranno in imbarazzo e proveranno l’esigenza di marcare la differenza, di proclamare a gran voce che la scienza psicologica esiste, è forte sicura ed efficace. Tutta la manualistica di fatto non fa che produrre in continuazione materiale a suffragio della tecnica, della scientificità del metodo, della garanzia dei risultati.
A me invece sembra che, per dirla con Basaglia, tutto questo sia solo “retorica del potere” .
“È il potere che vince, che vince sempre, noi in questa minoranza che siamo non possiamo vincere, possiamo solo convincere…”
Nella capacità di convincere noi continuiamo a essere quell’anomalia, quella spina nel fianco, quel procedere incerto e lento che, senza urlare o marciare, conduce il paziente fuori dalle sabbie mobili del disagio psichico.
Accanto ai testi sacri di psichiatria e psicologia proporrei come obbligatori autori come Tolstoj, Dostoevskij, Nietzsche, e poi Montale, Leopardi… la Bibbia, il Talmud, insomma tutte quelle letture in cui si avvicina l’uomo prima della della sua malattia e che sembrano a conti fatti forse più utili dei testi della liturgia psicologica.
Caro Massimo,
non mi suona bene la frase di Basaglia: “il” potere vince sempre. Postula appunto una specie di solidarietà di tutte le forme e di tutte le manifestazioni del potere. Bisognerebbe dire che quello che fino a oggi ha sempre vinto è il potere “burocratico”, e questo non è un dettaglio: vuol dire, per esempio, che nei secoli e nei millenni la scienza si è trasformata in un gigantesco apparato burocratico globale dove conta solo la procedura e dove quindi trionfa la deresponsabilizzazione.
Mi interessa molto il tuo punto di vista su questo argomento perché sono convinto che la burocrazia, nelle sue innumerevoli sfaccettature, sia la più forte classe sociale, quella che non ha mai perso una guerra, ma sono troppo ignorante e digiuno di adeguate letture per decidere se questa convinzione abbia un senso.
Penso che dietro alla frase di Basaglia ci sia la consapevolezza che il sapere che muove l’accostarsi alla follia, come altri tipi di saperi, sia in qualche modo un linguaggio debole.
Io penso che il punto sia questo: secoli di positivismo, meccanicismo, nella versione della iatromeccanica di Malpighi ad esempio, abbiano, forse non irrimediabilmente ma comunque significativamente, corrotto il pensiero sull’esistenza, soprattutto quello che riguarda il benessere, la felicità, la salute mentale, ecc. cioè tutte quelle dimensioni dell’umano che, con una certa dose di riduzionismo ed anche un po’ di disonestà intellettuale, sono state ricondotte al meccanismo.
Cominciò Cartesio nel separare estensione e movimento, materia e pensiero, a suggerire che in fondo il dato fisico e quello meccanico appartengono alla stessa dimensione, ovvero cadono sotto l’egida della tecnica (della meccanica). Da lì poi Malpighi e la Iatromeccanica postulano l’essere umano come un insieme di sofisticati meccanismi…. Insomma l’uomo macchina si è addirittura mangiato Cartesio alla fine poiché il paradigma della latromeccanica, complementato di neuroscienza, neuroni specchio, pet, rmn, ecc. sembrerebbe addirittura mangiarsi Dio.
E’ questo il potere di cui penso parli il visionario Basaglia, la carta che spiega tutto, il ragionamento che convince ed uccide il dubbio, il linguaggio forte che colonizza fagocita ed uccide il pensiero debole.
Da filosofo tutte le volte che incontro un approccio, una spiegazione, un protocollo che va bene per tutto, che spiega qualunque cosa, penso di essere davanti ad una carta falsa… ricordo la parola poetica di Montale quando ci esorta a ’non chiedere la parola…’ ed al suo a me molto caro ‘ciò che non siamo, ciò che non vogliamo’.
Il linguaggio del potere dirà che è roba da poeti, da filosofi, insomma gente strana da cui non conviene comprare un’auto usata direbbero gli americani.
Fatta questa premessa concordo pienamente con te nel tuo pensiero sulla burocrazia che a mio avviso però da un certo punto di vista può essere ancora più insidiosa.
A me pare che la forza della burocrazia non sia tanto nella parte visibile ma in quella intangibile. La parte visibile è il suo linguaggio, sono le norme, la carta, i bolli, la liturgia, rispetto alla quale almeno si può cercare di fare opposizione.
La parte intangibile è invece il vero pericolo… l’intangibile della burocrazia è quel vuoto sintomale (Althusser) che produce il linguaggio, è la seduzione dello stare al sicuro, è il potere di sapere che si è nel giusto, che non ci si debba più pensare.
Nella “Canzone del Maggio” il grande De Andrè ci dice: “certo bisogna farne di strada da una ginnastica di obbedienza, fino a quel gesto certo più umano che ti dà il senso della violenza. Però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni, da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni.”
Di questo si parla dunque: non ci sono poteri buoni, mentre l’orizzonte precomprensivo che produce l’intenzione burocratica a me sembra suggerisca il contrario, ovvero che sia possibile agire un potere buono, come tutte le volte in cui con un governo nuovo abbiamo un nuovo ministero della semplificazione che a conti fatti mi sembra un ossimoro interessante.
Narcisisticamente a me piace pensare invece di poter continuare ad essere una spina nel fianco, una anomalia, come quelle zanzare fastidiose che la notte ti entrano nell’orecchio e ti costringono sveglio, incazzato, ma vivo.
E non bastano tutti i veleni del mondo, tutti i prodotti di sterminio che abbiamo inventato, non c’è zanzariera che tenga…. nel cuore della notte arrivano e non ci lasciano dormire.
Caro Massimo, leggendo ciò che scrivi mi tornano in mente dei versi di Eliot riletti qualche giorno fa e per caso… si tratta di “il mercoledì delle ceneri” che conclude con (traduzione mia) : “Insegnami a prendermi cura, non a curare, insegnami la quiete.”