Psiche

Mio figlio non sa più di borotalco

Dietro molti dei miei pazienti c’è una creatura dolce e terribile che li tiene prigionieri del suo amore, legati dalle catene tenaci del senso di colpa e del ricatto affettivo. Noi che ce l’abbiamo fatta abbiamo lottato e vinto, nonostante il cuore.

Aveva un anno mio figlio quando mise la mano sul petto della madre, prendendo con quel gesto congedo dal seno che fino allora aveva succhiato con voluttà. Circa un anno più tardi si liberava, con analogo gesto definitivo, del pannolino. Le due immagini si sono stampate nella mia memoria come momenti emblematici, rivelatori di un processo di svezzamento, e mi hanno confermato nell’idea che una vera autonomia non può essere che il risultato di un “auto-svezzamento”.

Nessun genitore, per quanto sinceramente consapevole della necessità di lasciare libero il figlio, è veramente in grado di tagliare il cordone ombelicale simbolico che lo lega a lui.

È solo il figlio che può dire “basta” e ottenere la libertà, che è conquista, non dono. Tale conquista non è indolore, comporta uno strappo, la presa di distanza dall’oggetto d’amore.

Mi balena un’associazione ardita: la Cacciata dall’Eden non è forse la scena primaria dell’emancipazione trasgressiva dei primi esseri umani? Adamo ed Eva conquistano una libertà che costa lacrime e solitudine, perché solitudine è l’inseparabile compagna dell’esercizio di libertà. La crescita esige l’eliminazione (si spera solo metaforica) della figura del padre, ostacolo a una vera autonomia. Lo scontro può essere assai duro perché spesso il genitore non si rassegna a passare il testimone, non vuole morire.

I miti più antichi e feroci raccontano di padri terribili e di figli che ingaggiano con loro una lotta disperata: Urano rinchiude i figli nelle viscere della madre e viene evirato da Crono; Crono divora i figli e viene detronizzato da Zeus… Ogni padre aspetta con timore e con speranza l’incontro fatale con il proprio Edipo e accetterà di soccombere, se ha a cuore il destino di libertà del figlio.

Le madri, invece, non muoiono mai, troppo forte il legame con chi hanno partorito. Al figlio spetta l’arduo compito di conquistare la giusta distanza e di resistere all’incanto della sirena che lo vuole eterno bambino. Perché le donne che danno la vita possono anche stringere nell’abbraccio mortifero della simbiosi, che non permette di crescere, che ferma il tempo. Per resistere al canto fatale tutti devono combattere una dura battaglia. Qualcuno non ce la fa e finisce nelle spire della dipendenza, gli altri vincono il diritto a vivere la loro vita. 

Dietro molti dei miei pazienti c’è una creatura dolce e terribile che li tiene prigionieri del suo amore, legati dalle catene tenaci del senso di colpa e del ricatto affettivo. Noi che ce l’abbiamo fatta abbiamo lottato e vinto, nonostante il cuore.

Psicologo e psicoterapeuta. Fondatore e responsabile scientifico di Fondazione Lighea Onlus.

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