Era un lunedì mattina, l’ultimo di “zona rossa” in Lombardia, almeno per ora. Rientrando in casa alle 10.30, contrariamente alle mie abitudini, ho sentito voci provenire dalla stanza di soggiorno. Mi sono affacciato alla soglia e ho trovato mia figlia e quattro sue compagne davanti allo schermo del computer di casa.
Margherita, Sonia, Francesca, Laura e Gabriella erano sedute intorno al grande tavolo al centro della sala, debitamente distanziate e debitamente fornite di mascherina, il fedele smartphone al fianco, libri e quaderni aperti, la professoressa di matematica sullo schermo.
Mi hanno immediatamente cacciato, ma io ho continuato ad osservare la scena da una fessura tra porta e stipite. Le ragazze seguivano la lezione con grande serietà, interagivano con l’insegnante e tra loro, controllando contemporaneamente il cellulare e sgranocchiando di quando in quando un biscotto, in una loro interpretazione della DAD che ricreava in ambiente domestico la situazione classe, o meglio una miniclasse in cui stabilire una trama di relazioni.
Avrei dovuto intervenire nei confronti di quello che poteva definirsi come assembramento? Non me la sono sentita.
Ho in seguito appreso che il gruppo si riunisce ogni mattina in un appartamento scelto tra quelli che rimangono liberi da presenze adulte. Le studentesse hanno trovato la formula di compromesso tra rispetto del divieto e relazione, obbedienza alla norma e desiderio.
Cosa sta succedendo ai nostri giovani?
Sono stati privati di un ambiente di vita, la scuola, per loro fondamentale: uno spazio non solo educativo per quanto riguarda i contenuti culturali, ma soprattutto importante per la socializzazione e la formazione della personalità.
Come si lamenta da più parti, la deprivazione sociale e il senso di solitudine alimentano tendenze di chiusura al mondo di cui già si intravvedono i segni: ci sono ragazzi che non si vestono più, trascorrono la giornata in pigiama o in tuta, attaccati al cellulare o connessi ai social. Il tempo non è più libero, ma vuoto.
Gli studenti, però, stavolta hanno cominciato a reagire mettendo in atto occupazioni simboliche di edifici scolastici. Meno male che in molti siano ancora capaci di esprimere una volontà trasgressiva.
Purtroppo ci sono anche adolescenti, preda di indolenza o di una specie di accidia (virtuosa?), che rinunciano a uscire, si chiudono nelle loro stanze, spengono il desiderio. Quando tutto sarà finito, troveranno la forza di uscire dalla tana? Alcuni, ora che le aule sono aperte, faticano ad andare. Quella forza non la sentono e sono tentati dal restarci, nella tana.
Le vicende di questo difficile periodo ci lasciano alcuni insegnamenti.
Le misure prese a causa della pandemia hanno determinato il ricorso massiccio a nuove tecnologie, hanno fatto emergere nuove forme di espressione e imposto nuove modalità di acculturazione.
La scuola può fare tesoro di queste esperienze e rinnovarsi cambiando le sue liturgie, adeguandosi a nuovi linguaggi, assecondando istanze che rispondono ai bisogni dei suoi discenti.
Non si tratta di abdicare al ruolo di educatori inseguendo mode giovanilistiche, ma di acquisire consapevolezza dei mutamenti in atto nei linguaggi e nella comunicazione delle nuove generazioni.
I passaggi generazionali hanno sempre contemplato il superamento, più o meno vistoso, di vecchi equilibri, ma nella società attuale la frattura appare particolarmente profonda: gli adolescenti odierni si presentano come soggetti misteriosi, il colloquio intergenerazionale risulta difficile.
E’ comunque necessario superare le nostre riserve, comprendere le richieste che dal mondo giovanile provengono e cercare di costruire un modello scolastico che ad esse risponda. Senza però dimenticare che nessuna DAD può supplire al clima affettivo che si crea in una classe di persone fisiche, che si parlano guardandosi e toccandosi, all’interno della quale si sviluppano sensi di solidarietà e di appartenenza, si condividono pensieri, scoperte, ideali ed emozioni, ci si educa a vivere in una comunità. Di questo calore umano che aiuta a crescere gli studenti sono stati privati e oggi ne sentono la mancanza e lo reclamano.