Era il 1971 e io, allora venticinquenne animato da giovanile baldanza, arrivavo a Magenta con un doppio incarico: direttore scientifico del “Centro professionale per disabili” del locale Consorzio e supervisore di scuole speciali e classi differenziali come psicologo dell’OMNI (Opera Nazionale Maternità e Infanzia). Le scuole speciali raccoglievano l’utenza di un bacino comprendente 33 comuni, per un totale di circa 300 tra bambini e ragazzi affetti da disabilità sia fisiche sia psichiche di diversa entità.
Presto mi accorsi che, accanto a individui affetti da patologie gravi, c’era una maggioranza di alunni il cui handicap principale era costituito da difficoltà di linguaggio. Curiosamente provenivano in prevalenza da tre regioni, Calabria, Sicilia e Veneto, e mi fu facile appurare che vivevano in ambienti familiari culturalmente deprivati nei quali si parlava esclusivamente il dialetto. Anche se avevano un Q.I. modesto, il loro inserimento in scuole speciali o in classi differenziali non poteva essere giustificato, anzi, uscendo dal ghetto nel quale erano stati confinati, inseriti in classi normali, avrebbero potuto trarre giovamento dal contatto con coetanei dal linguaggio più ricco e con un ambiente stimolante.
Si trattava prima di tutto di un fatto di civiltà: se, come recita la Costituzione, tutti i cittadini hanno pari dignità e uguali diritti, anche chi era affetto da disabilità doveva trovare il suo spazio negli ambienti formativi da tutti frequentati e venire integrato nella comunità.
Si aggiungevano importanti ragioni di carattere terapeutico: non nascondendo l’handicap, ma portando chi ne è colpito a studiare, lavorare, vivere in ambienti “normali”, accanto ai “normali” che li abitano, si favorisce il prodursi di nuovi rapporti sociali e un confronto capace di risultati positivi, sia per i disabili, per i quali si avvia il processo di inclusione, sia per l’ambiente, sollecitato a una maturazione culturale che lo porta ad abbandonare pregiudizi e atteggiamenti discriminatori.
Erano quelli anni di appassionati e furiosi scontri ideologici e io avevo trovato la mia battaglia da combattere. Ebbe inizio un periodo frenetico di documenti di appoggio o denuncia, di accesi dibattiti, di assemblee di genitori, personale della scuola, educatori, sindacalisti. C’erano insegnanti divisi tra un’adesione ideologica ai progetti innovativi e la paura di perdere il posto di lavoro, per quelli delle scuole speciali, o la preoccupazione per l’aumento del carico di lavoro, per quelli delle classi normali); c’era la dirigenza scolastica condizionata da protocolli e circolari ministeriali; c’erano genitori agguerriti schierati su fronti opposti.
Iniziammo a svuotare gradualmente scuole speciali e classi differenziali a titolo di sperimentazione pilota, in un clima di aggressioni verbali e minacce di denunce, ma anche di convinto entusiasmo. Con uguali finalità alcuni ragazzi impegnati nel laboratorio protetto vennero inseriti in scuole professionali o in ambienti di lavoro del territorio, dove poter completare la loro formazione con un tirocinio.
Ci siamo battuti bene: a Magenta è prevalso un modello di inclusione alcuni anni prima che, nel 1977, la chiusura delle scuole speciali diventasse legge.
Oggi apprendo con sconcerto e amarezza che si torna a parlare di classi speciali.
Certo, si sono sentite da ogni parte reazioni indignate, ma il solo fatto che qualcuno abbia pronunciato quelle parole desta allarme. Mi è sembrato di essere riportato indietro nel tempo. Spira forse un vento di restaurazione? A quando la nostalgia del manicomio?
Nulla è mai acquisito per sempre: le conquiste civili vanno tutelate, i diritti continuamente difesi da tentazioni involutive.