Quasi ogni mattina prima di infilarmi in metro cerco parcheggio davanti al Beccaria, l’Istituto penitenziario minorile di Milano, dove le vite interrotte di tanti giovani (una settantina, stando al rapporto di Antigone datato gennaio 2024) cercano un senso. Freschissime sono le notizie che raccontano sommosse, tentativi di fuga ed evasioni riuscite, mentre a qualche mese fa risalgono le denunce delle violenze a danno dei detenuti. Ne scende una triste contabilità di guerriglia intra-urbana senza vincitori.
La questione è complessa, tuttavia una parola mi sento di spenderla, non fosse altro perché con qualcuno dei ragazzi che dal Beccaria sono passati ho lavorato. Di uno di loro mi colpì il contrasto tra il volto coperto di tatuaggi, quasi una maschera tragica, e la compostezza gentile, il tono calmissimo, l’eleganza nei gesti. Altri due mi sfinivano con il sarcasmo e l’imbattibile alleanza nel delegittimare ogni tentativo di aggancio. Un terzo ha resistito fino all’ultimo alla voglia di mettere in pratica le proprie abilità nei laboratori creativi, per paura di sporcarsi e perdere fascino agli occhi delle ragazze.
Perché li ricordo? In parte per le storie del loro ritorno nel grembo della società. Ma la misura del tempo tra semina e raccolto può essere molto elastica e il lieto fine, quando c’è, non è esente da risvolti cupi o passaggi incolori. Se ricordo quei ragazzi è soprattutto perché mi è stato possibile incontrarli uno a uno e trattenere, dal flusso inarrestabile delle esperienze che la vita ci propone, la traccia unica di una fisionomia o il timbro di una voce.
Li ricordo perché una committenza illuminata ha sfidato la dittatura dei budget, finanziando progetti piccoli nei numeri e grandi nelle ambizioni. Quella regia ha permesso che le figure educative (due) imbastissero con i ragazzi (dieci) un rapporto personale, in un gruppo che si configurava come cornice allo stesso tempo affettiva ed etica, nella quale ognuno poteva depositare attese, rabbia, desideri e timori, ma a cui tutti sapevano di dover rendere conto.
Solo all’interno di una relazione a due l’adulto può infatti giocare la postura dell’autorità, che garantisce il legame e allo stesso tempo chiama i più giovani a essere responsabili.
In un istituto penale per minorenni, ove più che mai la pena dovrebbe allacciarsi a un percorso di emancipazione e smettere di agire la sua valenza punitiva, occorre che qualcuno si assuma l’onere della tutela e il cerchio (leggi, i numeri) sia abbastanza grande perché tutti possano decidere dove posizionarsi e abbastanza piccolo perché ciascuno possa parlare, essere riconosciuto e chiamato per nome.
Occorre un perimetro relazionale capace di regolare e con-tenere, ossia tenere insieme, riscaldando il “vuoto pieno fino all’orlo” di cui canta Sacky nella cronistoria rap della risalita dal carcere verso la musica. Poi viene la vera sfida educativa per l’adulto: passare dal codice materno dell’accoglienza a quello paterno della scommessa, che rinuncia a saturare quel vuoto (ovvero a dire al minore cosa fare per riempirlo) e investe sull’altro, sulla sua volontà e autonomia. Chi ha ferito il corpo sociale e perso la libertà deve infatti poterla recuperare nel respiro di una scelta, dove il futuro diventi di nuovo immaginabile. La “riabilitazione” passa anche da qui: reinventare la propria umanità, ricucendo lo strappo interiore per poi riannodarlo al tessuto pieno di toppe del mondo.
Le probabilità che tale scenario si realizzi quando una manciata di educatori che turnano hanno in carico 60 adolescenti sono prossime allo zero. Ma quand’anche la partita fosse truccata, è a mio avviso chiara la direttrice di senso verso cui orientare i nostri sforzi di ragionamento e di azione.
Eventuali consigli di lettura: Fassone E., Fine pena: ora, Sellerio editore, Palermo.