Sono su una spiaggia affollata, al sole di agosto, mi si avvicina una signora dal volto vagamente familiare.
“Sono la madre di Elisabetta, l’amica di sua figlia”.
“Piacere, signora. Molto lieto”.
“Piacere mio.“ Breve pausa. “Mi chiamo Anna R., sono bipolare”.
Mi allunga una diagnosi come si porge un biglietto da visita.
Questa presentazione, per quanto bizzarra, esprime una tendenza diffusa.
Io sono stato sempre convinto, per dirla con Pirandello, che ogni individuo è “uno, nessuno e centomila”, si trasforma nel tempo, sfugge a classificazioni definitorie. E invece no, sembra che oggi non si possa fare a meno di una diagnosi, se ne abbia bisogno per esistere, quasi fosse la psicopatologia a dare consistenza alla persona.
Si tratta di diagnosi sempre più specifiche e personalizzate, che articolano le tradizionali in una moltitudine di sottoclassi.
Non si parla più, per esempio, genericamente di fobia, ma si attribuisce un nome specifico a ciascuna loro variante in rapporto alla situazione che le scatena. Accanto alle tradizionali claustrofobia e agorafobia distinguiamo pertanto: acrofobia (paura dell’altezza), rupofobia (paura dello sporco), patofobia (paura delle malattie), eritrofobia (paura di arrossire), fobia sociale (paura di mostrarsi, di parlare in pubblico), idrofobia (paura dell’acqua), kenofobia (paura del vuoto), pedofobia (paura dei bambini), scotofobia (paura del buio), tassofobia (paura del mare), aviofobia (paura di volare), demofobia (paura della folla), anemofobia (paura del vento), leucofobia (paura del colore bianco), melanofobia (paura del colore nero), cristallofobia (paura del vetro), courlofobia (paura dei clown)… e potremmo continuare.
Usiamo termini specifici per l’ansia legata alle diverse specie di animali: aracnofobia (paura dei ragni), ailurofobia (paura dei gatti), alectorobofobia (paura dei polli), ofidiofobia (paura dei serpenti), acarofobia (paura degli insetti), cinofobia (paura dei cani), ornitofobia (paura degli uccelli), agrizoofobia (paura degli animali selvatici)… e potremmo continuare.
Le sindromi alla prossima puntata.
Personaggi complessi, soggetti a sbalzi di umore, vengono immediatamente classificati come bipolari. Non sono sfuggite alla diagnosi postuma illustri figure del passato, da Michelangelo a Churchill, da Caravaggio a Napoleone, da Tolstoj a Teodoro Roosevelt.
Un tempo di un ragazzo che aveva grosse difficoltà in matematica (cosa abbastanza frequente) si diceva che non era proprio portato per la materia, oggi si parla subito di discalculia.
Di un bambino che leggeva con fatica si diceva che era lento ad apprendere, oggi si parla subito di dislessia.
Non si vuole negare che in alcuni casi tale terminologia possa essere appropriata, ma la sua applicazione tanto universalmente disinvolta denuncia una tendenza generale a medicalizzare comuni difficoltà dell’apprendimento che non hanno nulla di particolarmente patologico.
Il ragazzo che ha quattro in matematica ha di solito più bisogno di un bravo insegnante che di uno psicologo.
Ricordo un mio paziente che ha frequentato assiduamente per anni le riunioni degli “alcolisti anonimi”, con buoni risultati per il suo equilibrio. Il fatto sorprendente è che non era un alcolista: aveva bisogno di una diagnosi che gli desse identità.
Paradossalmente, la fortuna di Greta Thunberg non potrebbe dipendere dall’essere affetta da sindrome di Asperger?
“Parlami di me – diceva Pessoa – così capisco chi sono”. Ma certo non pensava a una diagnosi clinica.
Questa richiesta è presupposto di qualsiasi relazione, in cui l’altro è lo specchio nel quale mi riconosco.
La stessa cosa ci chiedono i nostri pazienti. Il rapporto terapeutico è qualcosa di dinamico, un percorso di conoscenza della ricchezza e della singolarità di un individuo che non può essere ridotto a una diagnosi, l’esplorazione di un mistero mai completamente sondabile.
P.S. Ho sognato di stare in cima a un albero e che, a somiglianza di un famoso personaggio felliniano, gridavo: VOGLIO UNA DIAGNOSI.