Andare via, cambiare contesto per cambiare se stessi. In una nota miniserie di qualche anno fa, Unorthodox, si narra la storia di una ragazza che, non senza fatica, scappa dal contesto che sopporta da anni, dalla nociva quotidianità dominata da una famiglia ebrea ortodossa newyorkese. C’è un’inquadratura che resta impressa: Esther, la protagonista, con gli occhi rapiti dall’atmosfera berlinese, posto scelto per la fuga, dove riscoprirà se stessa e continuerà a lottare contro un passato che non cederà nell’impresa di ripresentarsi.
Nel caso di Esther scegliere di andare via non è stato facile, ma all’interno della serie si può cogliere l’evidenza del fatto che se fosse rimasta nel suo nido d’origine non avrebbe mai potuto avere voce in capitolo, neanche sulla sua stessa vita. Scappare dalla propria famiglia è doloroso, ma talvolta la scelta diviene obbligo, e svanisce il bisogno di domandarsi quale sia la cosa giusta da fare.
Ci sono altri motivi, però, che possono spingere i giovani, e non solo, ad andare via, a porre un sigillo temporaneo su ciò che per anni hanno considerato il loro unico mondo possibile. Molti della mia generazione di ventenni vanno e vengono ed è interessante osservare da vicino le trasformazioni di chi sceglie di cambiare contesto, di chi decide di buttarsi dentro qualcosa che può anche fare molta paura.
Ma quella paura è anche la causa stessa della metamorfosi, perché attraversandola ci rendiamo conto di essere più forti di lei, ci accorgiamo che dietro la paura ci siamo noi e c’è l’opportunità di scoprire qualcosa di significativo sulla nostra persona.
“Non si scappa mai dai luoghi, né dalle persone, né tantomeno dalle circostanze: si scappa da se stessi”, scriveva la poetessa Alda Merini. Perché sì, talvolta alcune situazioni possono sembrarci insopportabili o irrisolvibili, ma quando decidiamo di allontanarci lo facciamo perché non ci piace chi stiamo diventando, detestiamo l’incapacità che contraddistingue la gestione di ciò che stiamo vivendo, e a volte per imparare occorre mettersi alla prova e distanziarsi dalle cose che non fanno altro che creare confusione.
Una buona parte della mia generazione, però, appare invece bloccata nella staticità. Persone che si raccontano di conoscere il mondo in tutte le sue sfaccettature e rimangono con le mani in mano e con la stessa svogliatezza di sempre, che poi non è nient’altro che una delle tante maschere che indossa la paura. Non si guarisce nello stesso luogo in cui ci si è ammalati, dice un proverbio famoso, e io penso che, se non altro, togliersi da dove si è, se il posto che si occupa è nocivo, sia comunque un primo grande passo in direzione della cosiddetta guarigione. E sì, può darsi che in una piovosa serata di novembre ci si ritroverà per la prima volta soli nella propria stanza, e forse le lacrime scenderanno e il senso di vuoto aggredirà lo stomaco, ma non è forse questa la caratteristica principale di un’evoluzione? Sopportare le frustrazioni, le sensazioni di fallimento, affinché un giorno ci si potrà voltare indietro e dirsi che sì, ce l’abbiamo fatta.