Narrazione: una parola che va di moda, una parola che ha avuto fortuna e ha conquistato spazio in modo trasversale. Non ho simpatia per questa parola, che mi suona sofisticata, pretenziosa e anche un po’ insincera: mi sembra presupporre un narratore che dà la sua impronta al discorso, pur con la pretesa dell’oggettività, insomma un falso consapevole. Preferisco di gran lunga il vecchio e tradizionale termine “racconto”, parola generica che abbraccia una varietà di generi, quali novella, romanzo, resoconto, diario, fiaba…, parola semplice, naturale, onesta.
Io di racconti me ne intendo.
Ogni terapia comincia infatti con un racconto: il paziente che entra per la prima volta nel mio studio si siede e inizia a parlarmi della sua vita, a “raccontarsi”. Il racconto con il quale si presenta è cristallizzato nel tempo, rigido, bloccato, l’ha narrato e se l’è narrato innumerevoli volte con accenti sempre uguali, se l’è cucito addosso come una corazza.
Il lavoro terapeutico consiste proprio nel rileggerlo, nel metterlo in discussione e aggiornarne il significato, conferirgli mobilità fino a produrre un racconto nuovo. Come avviene con un libro? Sì, proprio come avviene con un libro amato, che, letto per la prima volta a 18 anni, riletto a 30, a 50, a 60… ci dice cose diverse, ci procura emozioni e sentimenti nuovi.
Che cosa è una psicoterapia se non la messa in scena del racconto di una vita, che il paziente lentamente costruisce, seduta dopo seduta, rileggendo, rivedendo, aggiornando, modificando la propria storia? E cosa può esserci per un individuo di più interessante della propria storia?
La terapia induce il paziente a lavorare su tale storia, rielaborandola, storicizzandola, trasformandola, senza falsarla, ma regalandole interpretazioni inedite. Ciò che è stato vissuto in modo drammatico, guardato con occhi diversi, da una nuova prospettiva, può rivelare aspetti trascurati, meritare una revisione che lo renda meno distruttivo: il quadro si rischiara, la tragedia sfuma i suoi colori fino ad accogliere suggestioni di commedia.
Il lavoro terapeutico spinge il paziente a scoprire parti di sé di cui non aveva piena consapevolezza, quindi a donare maggiore ricchezza alla sua storia, a conferirle forme nuove. Gli insegna anche che, comunque lo formuli, il romanzo che è andato a comporre non è definitivo, ma aperto a sviluppi futuri, sempre riformulabile con altre parole.
Nonostante le sue metamorfosi, il racconto mantiene il profumo del vero: rimane autentico, pur creando nuove realtà, chi lo narra è infatti sinceramente convinto di non mentire.
Non finisce nemmeno con la morte perché continua nei figli, nei nipoti, negli amici… che aggiungono, correggono, variano… a volte diventa leggenda.
L’uomo vive di storie, alcune si trasformano in miti.