Attualità

L’inferno delle mascherine nei sogni di medici e infermieri

“Una persona mi si avvicina, ma è senza mascherina. Io alzo le mie mani, le dico di stare indietro, di fermarsi, di non avvicinarsi. Ma non si ferma. Dietro di me c’è una porta, mi chiudo dentro e aspetto”.  (Michele, infermiere)   “Sto aiutando qualche malato a stendersi nel letto, oppure aiuto i barellieri a tirarli giù dall’ambulanza, o i medici nelle cure giornaliere. A un certo punto però mi viene il dubbio, mi tocco il volto e scopro di essere senza mascherina. Mi spavento perché non sono protetta, e scappo”.  (Silvia, Oss, incubi ricorrenti)   “Sono in giro in centro: a un certo punto mi rendo conto che c’è tantissima gente che mi circonda, e son tutti senza mascherina. Sono bloccata, non ho una via di fuga, sicuramente prendo il Covid”. (Elena, amministrativa)   Eccoli, alcuni tra i sogni di chi – in pieno lockdown – aveva a che fare ogni giorno con il Covid. I sogni di medici, infermieri, impiegati ospedalieri, nei mesi della primavera 2020, quando la malattia faceva più paura. Sogni talmente vividi da sembrare reali, lasciano poco all’immaginazione e al surreale, sembrano quasi paure che parlano direttamente, arrivando in coscienza e in superficie. Ma che, in quel momento, non si potevano dire, solo sognare, nel pieno dell’emergenza, a cui evidentemente nel quotidiano non si poteva lasciare alcuno spazio. Ciò che colpisce e che ci riporta ad oggi è che in quasi tutti questi sogni c’è una protagonista comune: la mascherina. Non se ne trovavano, in quelle prime settimane di paura, non si sapeva quali fosse la loro reale utilità, si diceva anche di non usarle, che servivano negli ospedali ed era meglio lasciarle a medici e infermieri. E proprio le mascherine che nascondono e proteggono, che celano un volto e lasciano agli occhi tutta la relazione. Sicuramente il simbolo della pandemia, come ci dicono questi sogni, è proprio qua, nella mascherina. Che poi, la maschera da sempre a questo è servita, agli sciamani per mettere un filtro col mondo e parlare con l’aldilà, così come hanno origine nel sacro e nel rito le maschere del teatro greco. D’altra parte, per Jung la maschera altro non è che il volto con cui ci presentiamo al mondo, agli altri. Pur sempre una forma di protezione della parte più fragile e intima. Ecco, la pandemia questa maschera l’ha resa visibile e concreta, in qualche modo, rendendo il mondo qualcosa di pericoloso, gli altri quelli da cui difenderci. E adesso, che la mascherina possiamo toglierla, almeno all’aperto, in molti fanno fatica, provano disagio. E la tengono su. Nei sogni raccolti la mascherina rappresenta barriera e al tempo stesso protezione, regola e trasgressione. Lo psicologo Ivan Giacomel è stato in prima linea con la Fondazione Soleterre presso il Policlinico san Matteo di Pavia, a dare supporto psicologico durante l’emergenza sanitaria da Covid-19. E in quei mesi con gli altri volontari ha accolto le paure di medici e pazienti, infermieri e malati, e ha pensato di raccogliere anche i loro sogni. “La mascherina ci ha limitato, non ci ha fatto respirare, ci ha dato fastidio. Ma ora, nel momento in cui si può togliere, alcuni sono felici ma per tanti è destabilizzante. Perché ci ha protetto, in questi mesi. Ogni regola, se ci pensiamo, ci limita e ci protegge”, riflette il dottor Giacomel. Le regole ci “aiutano a farci sentire contenuti: sono come le strade, che ti dicono dove andare ma ti permettono anche di andare. Senza le strade possiamo perderci, o impantanarci”. Siamo nel momento in cui dobbiamo affrontare una “nuova fase di passaggio, trovare un nuovo equilibrio” e qualche smottamento ci potrà essere. “Ricordiamoci – dice – che il nostro cervello cerca le abitudini, non il cambiamento”. Molto è cambiato, da quella primavera, per fortuna: il virus è meno estraneo, i vaccini ci difendono, gli ospedali sono in affanno ma non al collasso. “Ho visto cambiare anche i sogni – racconta il dottor Giacomel – per esempio Elena continua a sognarsi circondata da persone senza mascherina, stavolta in treno e sull’autobus, ma ora non prova più paura ma rabbia e non descrive più il suo sogno come un incubo”. L’incubo del contagio è quello che maggiormente ha accompagnato le notti di chi, per lavoro, è stato maggiormente esposto al virus. Come in questi: “Scoprono che ho il Covid. Mi portano in ospedale: ho messo decine e decine di caschi Cpap alle persone, ed è una tortura. Ora lo stanno mettendo a me. Sudo, e mi sveglio angosciato”. (Marco, medico)    “Esco dalla zona sporca, mi sto spogliando di tutti i DPI, e a un certo punto scopro che i pantaloni di protezione hanno uno squarcio: quindi forse mi sono contagiata?”. (Debora, anestesista)   “Sicuramente il terrore di essere contagiato è stato una costante per il personale sanitario”, racconta lo psicologo. “In moltissimi casi questo terrore era collegato a quello di portare il virus a casa, di contagiare i propri cari, con il conseguente senso di colpa. La paura prende una forma diversa in ognuno di noi, nel personale medico e infermieristico più giovane, che si sentiva comunque meno esposto ai rischi peggiori della malattia, prendeva la forma del timore di poter contagiare qualcuno, di poter far male”. E’ interessante anche notare che rispetto alle relazioni, la paura di essere contagiati aveva a che fare più spesso con la persona non conosciuta direttamente, per esempio nel sogno visto prima in un assembramento, raramente si concretizza nella paura di essere contagiato da una persona cara, o vicina. In quel caso, quello che prevale è la paura di far male all’altro. Adesso, a distanza di oltre un anno e mezzo “la paura è calata moltissimo, pian piano hanno preso spazio la rabbia e la stanchezza”. In ospedale, racconta il dottor Giacomel, “si continua a lavorare a ritmi serratissimi, non è facile bilanciare questo con un mondo esterno che va sempre più verso la normalità, Nelle corsie si vede il peggio e gli assembramenti, le feste, le situazioni di rischio sono vissute con rabbia, come una mancanza di rispetto per i malati e per chi lavora in corsia”.  Molti, nel personale sanitario, non stanno vivendo questa come una fase di liberazione: “Nonostante i vaccini, in molti temono il prossimo autunno, alcuni sono così stanchi che non credono finirà mai, sono rassegnati e frustrati, pensano che da ottobre le cose ricominceranno come lo scorso anno. Devo dire che molti, tra loro, stanno pensando di cambiare lavoro” tanto è stato duro affrontare questa fase. Una fatica legata anche alla scarsa valorizzazione sociale del lavoro svolto: “Nella primissima ondata, in pieno lockdown erano celebrati come eroi. Ricordo – dice il dottor Giacomel – che in quelle settimane ci arrivavano le pizze, o al mattino la colazione dai bar chiusi della zona, ricordo bancali di bibite. Si sentiva forte il supporto della popolazione e questo in corsia era importante. A un certo punto non solo è sparito il supporto, ma si è trasformato quasi in accusa”. Basta pensare alla fase delle cause in tribunale o di quegli asili che si sono rifiutati di accogliere i figli del personale sanitario, o a quando si diceva che solo i figli del personale sanitario sarebbero potuti andare a scuola ma poi si è fatto un rapido dietrofront anche a causa delle proteste. “Tutte situazioni – conclude Giacomel – che devono farci riflettere. Non sappiamo se ci sarà o meno un’altra emergenza ma, questo è certo, non ci stiamo occupando come dovremmo di chi ci ha permesso di affrontarla”.

“Una persona mi si avvicina, ma è senza mascherina. Io alzo le mie mani, le dico di stare indietro, di fermarsi, di non avvicinarsi. Ma non si ferma. Dietro di me c’è una porta, mi chiudo dentro e aspetto”.  (Michele, infermiere)

 

“Sto aiutando qualche malato a stendersi nel letto, oppure aiuto i barellieri a tirarli giù dall’ambulanza, o i medici nelle cure giornaliere. A un certo punto però mi viene il dubbio, mi tocco il volto e scopro di essere senza mascherina. Mi spavento perché non sono protetta, e scappo”.  (Silvia, Oss, incubi ricorrenti)

 

“Sono in giro in centro: a un certo punto mi rendo conto che c’è tantissima gente che mi circonda, e son tutti senza mascherina. Sono bloccata, non ho una via di fuga, sicuramente prendo il Covid”. (Elena, amministrativa)

 

Eccoli, alcuni tra i sogni di chi – in pieno lockdown – aveva a che fare ogni giorno con il Covid. I sogni di medici, infermieri, impiegati ospedalieri, nei mesi della primavera 2020, quando la malattia faceva più paura. Sogni talmente vividi da sembrare reali, lasciano poco all’immaginazione e al surreale, sembrano quasi paure che parlano direttamente, arrivando in coscienza e in superficie. Ma che, in quel momento, non si potevano dire, solo sognare, nel pieno dell’emergenza, a cui evidentemente nel quotidiano non si poteva lasciare alcuno spazio.

Ciò che colpisce e che ci riporta ad oggi è che in quasi tutti questi sogni c’è una protagonista comune: la mascherina. Non se ne trovavano, in quelle prime settimane di paura, non si sapeva quali fosse la loro reale utilità, si diceva anche di non usarle, che servivano negli ospedali ed era meglio lasciarle a medici e infermieri. E proprio le mascherine che nascondono e proteggono, che celano un volto e lasciano agli occhi tutta la relazione. Sicuramente il simbolo della pandemia, come ci dicono questi sogni, è proprio qua, nella mascherina. Che poi, la maschera da sempre a questo è servita, agli sciamani per mettere un filtro col mondo e parlare con l’aldilà, così come hanno origine nel sacro e nel rito le maschere del teatro greco. D’altra parte, per Jung la maschera altro non è che il volto con cui ci presentiamo al mondo, agli altri. Pur sempre una forma di protezione della parte più fragile e intima. Ecco, la pandemia questa maschera l’ha resa visibile e concreta, in qualche modo, rendendo il mondo qualcosa di pericoloso, gli altri quelli da cui difenderci. E adesso, che la mascherina possiamo toglierla, almeno all’aperto, in molti fanno fatica, provano disagio. E la tengono su.

Nei sogni raccolti la mascherina rappresenta barriera e al tempo stesso protezione, regola e trasgressione. Lo psicologo Ivan Giacomel è stato in prima linea con la Fondazione Soleterre presso il Policlinico san Matteo di Pavia, a dare supporto psicologico durante l’emergenza sanitaria da Covid-19. E in quei mesi con gli altri volontari ha accolto le paure di medici e pazienti, infermieri e malati, e ha pensato di raccogliere anche i loro sogni.

“La mascherina ci ha limitato, non ci ha fatto respirare, ci ha dato fastidio. Ma ora, nel momento in cui si può togliere, alcuni sono felici ma per tanti è destabilizzante. Perché ci ha protetto, in questi mesi. Ogni regola, se ci pensiamo, ci limita e ci protegge”, riflette il dottor Giacomel. Le regole ci “aiutano a farci sentire contenuti: sono come le strade, che ti dicono dove andare ma ti permettono anche di andare. Senza le strade possiamo perderci, o impantanarci”. Siamo nel momento in cui dobbiamo affrontare una “nuova fase di passaggio, trovare un nuovo equilibrio” e qualche smottamento ci potrà essere. “Ricordiamoci – dice – che il nostro cervello cerca le abitudini, non il cambiamento”.

Foto di Margherita Dametti per Fondazione Soleterre

Molto è cambiato, da quella primavera, per fortuna: il virus è meno estraneo, i vaccini ci difendono, gli ospedali sono in affanno ma non al collasso. “Ho visto cambiare anche i sogni – racconta il dottor Giacomel – per esempio Elena continua a sognarsi circondata da persone senza mascherina, stavolta in treno e sull’autobus, ma ora non prova più paura ma rabbia e non descrive più il suo sogno come un incubo”.

L’incubo del contagio è quello che maggiormente ha accompagnato le notti di chi, per lavoro, è stato maggiormente esposto al virus.

Come in questi:

“Scoprono che ho il Covid. Mi portano in ospedale: ho messo decine e decine di caschi Cpap alle persone, ed è una tortura. Ora lo stanno mettendo a me. Sudo, e mi sveglio angosciato”. (Marco, medico)

 

 “Esco dalla zona sporca, mi sto spogliando di tutti i DPI, e a un certo punto scopro che i pantaloni di protezione hanno uno squarcio: quindi forse mi sono contagiata?”. (Debora, anestesista)

 

“Sicuramente il terrore di essere contagiato è stato una costante per il personale sanitario”, racconta lo psicologo. “In moltissimi casi questo terrore era collegato a quello di portare il virus a casa, di contagiare i propri cari, con il conseguente senso di colpa. La paura prende una forma diversa in ognuno di noi, nel personale medico e infermieristico più giovane, che si sentiva comunque meno esposto ai rischi peggiori della malattia, prendeva la forma del timore di poter contagiare qualcuno, di poter far male”. E’ interessante anche notare che rispetto alle relazioni, la paura di essere contagiati aveva a che fare più spesso con la persona non conosciuta direttamente, per esempio nel sogno visto prima in un assembramento, raramente si concretizza nella paura di essere contagiato da una persona cara, o vicina. In quel caso, quello che prevale è la paura di far male all’altro.

Adesso, a distanza di oltre un anno e mezzo “la paura è calata moltissimo, pian piano hanno preso spazio la rabbia e la stanchezza”. In ospedale, racconta il dottor Giacomel, “si continua a lavorare a ritmi serratissimi, non è facile bilanciare questo con un mondo esterno che va sempre più verso la normalità, Nelle corsie si vede il peggio e gli assembramenti, le feste, le situazioni di rischio sono vissute con rabbia, come una mancanza di rispetto per i malati e per chi lavora in corsia”.  Molti, nel personale sanitario, non stanno vivendo questa come una fase di liberazione: “Nonostante i vaccini, in molti temono il prossimo autunno, alcuni sono così stanchi che non credono finirà mai, sono rassegnati e frustrati, pensano che da ottobre le cose ricominceranno come lo scorso anno. Devo dire che molti, tra loro, stanno pensando di cambiare lavoro” tanto è stato duro affrontare questa fase. Una fatica legata anche alla scarsa valorizzazione sociale del lavoro svolto: “Nella primissima ondata, in pieno lockdown erano celebrati come eroi. Ricordo – dice il dottor Giacomel – che in quelle settimane ci arrivavano le pizze, o al mattino la colazione dai bar chiusi della zona, ricordo bancali di bibite. Si sentiva forte il supporto della popolazione e questo in corsia era importante. A un certo punto non solo è sparito il supporto, ma si è trasformato quasi in accusa”. Basta pensare alla fase delle cause in tribunale o di quegli asili che si sono rifiutati di accogliere i figli del personale sanitario, o a quando si diceva che solo i figli del personale sanitario sarebbero potuti andare a scuola ma poi si è fatto un rapido dietrofront anche a causa delle proteste. “Tutte situazioni – conclude Giacomel – che devono farci riflettere. Non sappiamo se ci sarà o meno un’altra emergenza ma, questo è certo, non ci stiamo occupando come dovremmo di chi ci ha permesso di affrontarla”.

Giornalista finanziaria e psicologa, insieme alla comprensione dei numeri ritiene imprescindibile quella delle mente umana

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