Perché fa così paura parlare di suicidio?

Abbiamo finito col maturare l’impressione che non parlare di suicidio potesse essere di per sé benefico o quanto meno scongiurare danni peggiori. Ma è davvero così?

Ok, parliamo di suicidio. Ve lo annuncio dalla prima riga in modo che siate preparati e possiate scorrere verso il prossimo articolo se la cosa vi disturba troppo. Perché se c’è un argomento duro da digerire e che difficilmente trova spazio in televisione, sulle pagine dei giornali o in rete è proprio il suicidio. O almeno così era fino a pochi mesi fa, prima che Zerocalcare esplodesse con la sua serie animata da record Strappare lungo i bordi, o prima di quest’estate, quando dalla vetta delle classifiche la voce del 18enne Blanco in Mezz’ora di sole gridava di come un giorno “in quel parco nel 2018, sporco di fango, mi volevo ammazzare”. Ed è sempre tramite la musica che il tema è entrato di prepotenza nelle case di molti italiani con gIANMARIA, cantautore di 19 anni che si è presentato sul palco dell’ultima edizione di X Factor con un proprio inedito dal titolo I Suicidi. Un testo crudo, cantato con un’attitudine apparentemente distaccata, quasi assente, che la rivista Rolling Stone ha definito “senza fronzoli, senza facile retorica, senza cercare lo spettatore” e che fa arrivare il pezzo dritto come uno schiaffo in piena faccia.

Il video della sua prima audizione di fronte ai giudici è diventato in breve tempo virale. A colpire non sono tanto le visualizzazioni (comunque quasi due milioni), o i 40mila like, ma le migliaia di commenti: persone di tutte le età, tra cui molti giovanissimi, che lo ringraziano per aver affrontato un tema di cui si parla poco, che ricordano una persona cara che ha deciso di farla finita, insieme a tante confessioni incoraggiate dall’anonimato di chi più di una volta ci ha pensato e non ha saputo a chi e come dirlo. Non sono mancate però anche le reazioni negative, quelle di genitori spaventati all’idea di sapere i propri figli esposti a un messaggio così forte, madri e padri che si sono sentiti a disagio nel non sapere come spiegare la violenza di quelle storie tutte in fila. Abbiamo imparato come parlare agli adolescenti di sesso, o forse ci siamo semplicemente arresi al fatto che il mondo in cui vivono ne sia così tanto intriso, da non farci più molte domande quando nello stesso programma ascoltiamo brani in cui si parla di rubinetti da aprire tra le gambe e gente che viene negli slip, ma di fronte all’argomento morte siamo meno preparati, di fronte al suicidio del tutto analfabeti. Non è colpa nostra in fondo, neanche a noi l’hanno spiegato e la maggior parte forse nemmeno si è mai posta il problema.

C’è un motivo valido, peraltro, se sui media si preferisce non parlare di suicidio: si chiama effetto Werther – dal nome del protagonista del romanzo di Goethe – definito anche Copycat Suicide in letteratura scientifica, e riguarda la correlazione tra la copertura mediatica di un caso di suicidio e la possibilità che individui in una particolare condizione di vulnerabilità siano incoraggiati a commettere lo stesso gesto. Un effetto che si amplifica fino a quattro volte tra i giovani adulti. Per cercare di conciliare il diritto di cronaca con la prevenzione di atti di emulazione, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha così diramato delle specifiche linee guida cui i media dovrebbero attenersi quando si parla di suicidio, come ad esempio l’evitare di fornire dettagli sulle modalità usate o il trattare con particolare attenzione casi che riguardano personaggi famosi. Regole che la stampa riesce quasi sempre a rispettare, salvo dimenticarsene quando la notizia può avere un buon potenziale di visualizzazioni. L’accoppiata suicidi adolescenti e social network in questo è sempre vincente: toccare le corde sensibili della paura di genitori impotenti di fronte al dominio del virtuale è una manna per le statistiche dei click. 

Di suicidio non si parla quasi mai nemmeno in famiglia, anche quando il disagio psichico bussa alla porta di casa, e qui il timore di emulazione non c’entra nulla. La sofferenza psicologica di un figlio, anche quando non arriva a gesti estremi, è difficile da affrontare per un genitore, perché lo costringe a confrontarsi con il proprio senso di inadeguatezza, facendo emergere la terribile sensazione di non essere stato all’altezza del proprio ruolo. La reticenza a discutere apertamente del problema rappresenta in questo senso la difficoltà ad avvicinare una sofferenza di cui ci si sente in qualche modo responsabili. E se dal malessere emotivo passeggero ci si sposta verso territori più oscuri, quel silenzio non può che farsi più denso. Di fronte all’intollerabile si è muti, sordi e si cerca in ogni modo di distogliere lo sguardo: e cosa c’è di più intollerabile per un genitore dello spettro della morte del figlio? Un’immagine contro natura che minaccia quell’illusione d’immortalità che si pensava assicurata tramite la propria progenie, un attacco al senso più profondo di sé impossibile da concepire. 

Abbiamo finito così col maturare l’impressione che non parlare di suicidio potesse essere di per sé benefico o quanto meno scongiurare danni peggiori. Ma è davvero così? Non proprio, a giudicare dagli ultimi dati forniti dall’Unicef, secondo cui il suicidio è in Europa la seconda causa di morte per gli adolescenti dopo gli incidenti stradali. Dati confermati anche in Italia dall’osservatorio dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù, che rileva come il numero delle consulenze specialistiche e di ospedalizzazioni per ideazione suicidaria e tentativo di suicidio sia quasi raddoppiato nell’ultimo anno. Numeri messi facilmente in relazione con gli effetti della pandemia, ma che non cambiano la portata del fenomeno.

Se evitare di parlarne non sembra aver funzionato, dovremmo allora iniziare a riflettere su come iniziare a farlo e a chi affidare questo delicato compito.

La figura dello psicologo potrebbe essere forse quella più adatta, se non fosse che la maggior parte dei professionisti che comunicano online sembrano più occupati a promuovere la propria attività, che non a fare vera e propria informazione. Migliaia di articoli su ansia e relazioni di coppia, consigli su come crescere bambini felici o su come condurre una vita più appagante, in cui il tema del disagio psichico è solo sfiorato per non turbare troppo il lettore potenziale nuovo cliente. Parlare di suicidio – se si vuole stare lontani da facili sensazionalismi – è scomodo, ostico, brutale, non porta visite al tuo sito. Alcuni colleghi hanno però deciso di farlo, come Giuliana Torre, psichiatra e psicoterapeuta, che in un’intervista pubblicata qui su FuoriTestata ha provato a raccontare con parole semplici che cosa succede nella mente di un adolescente che arriva a desiderare di morire, fornendo anche alcuni strumenti per riconoscere i segnali di pericolo. O Barbara Collevecchio, psicologa e psicoterapeuta, che tramite i suoi seguitissimi canali social condivide dati sul fenomeno, facendo propria la voce di centinaia di colleghi che dai reparti di neuropsichiatria infantile cercano di sollevare l’attenzione su questa tragedia sommersa.

Parlare di suicidio non è più una scelta su cui meditare, ma una necessità da cui non possiamo più sfuggire. I ragazzi ce lo stanno chiedendo, a modo loro, con il loro linguaggio, che è quello dei social, dei fumetti, delle serie televisive, della musica. Ce lo gridano dalle canzoni, dalla TV, dai commenti lasciati sotto un video, non sanno più come dircelo. Possiamo continuare a nasconderci o iniziare ad ascoltarli e parlarne, anche a costo di rinunciare a qualche click.

Luisa Piroddi

Psicologa. Lavora con le storie: lette, ascoltate, raccontate, vere o sognate non importa, ma sempre comunque terapeutiche.

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