Una foto in bianco e nero che ritrae, attraverso una rete a maglie fuori fuoco, le alte mura perimetrali di cemento bianco di un carcere, sovrastate da filo spinato, con una torre di guardia al centro. Tra la rete e le mura c'è un passaggio ampio di erba. Sullo sfondo, dietro le mura, c'è un cielo nuvoloso.
Attualità

Carcere, a che serve sorvegliare e punire?

Le recenti violenze all’interno del carcere minorile Beccaria, oltre a suscitare giusto sdegno, hanno proposto con forza il problema della riforma dell’organizzazione carceraria. Il carcere, come attualmente strutturato, non ha potenzialità educative, non è luogo di riscatto, soffre di tutti i difetti delle istituzioni totali, il cui fine si riduce a sorvegliare e punire.

Ha suscitato profonda emozione e giusto sdegno la recente scoperta delle umiliazioni e degli episodi di violenza e di tortura inflitti agli ospiti del carcere minorile Beccaria da parte di alcuni elementi del personale, in possesso della qualifica di “educatori”. Non quindi guardie carcerarie, ma individui appositamente “formati” per il compito impegnativo di promuovere il ritorno nella legalità e il reinserimento nella società di giovani segnati dalla cultura criminale e da abitudini malavitose.

Quale la loro missione primaria? Convertire il linguaggio della violenza, nel quale i reclusi del Beccaria sono cresciuti, nel linguaggio della parola. Abbiamo invece assistito al rovesciamento dei ruoli. Sono stati i discenti a contagiare i loro educatori e a indurli ad adottare le modalità relazionali cui essi erano abituati. Individui soggetti alla violenza criminale sono così diventati oggetti della violenza delle istituzioni.

Ma, al di là dell’indole degli aguzzini, è l’organizzazione stessa dell’istituzione totale a covare in sé un potenziale di violenza. L’abbiamo visto nel manicomio, lo vediamo nelle carceri.

Strutture chiuse e autarchiche, separate dal contesto sociale, prive di scambi relazionali sani, spesso sovraffollate, non hanno potenzialità né educative né terapeutiche. Numeri importanti di individui responsabili di azioni criminose di vario genere e di differente entità rendono poco praticabile qualsiasi programma rieducativo, anzi, presentano il pericolo che si impongano proprio i modelli più negativi, come concentrare più matti in un unico spazio non può che moltiplicare la follia.

Non mancano alcune interessanti iniziative (per esempio, laboratori teatrali con attori carcerati), ma si tratta di esperienze episodiche e non strutturali, che si innestano su un corpo con una organizzazione dello spazio e del tempo che affonda le radici in lontane epoche storiche. Nonostante le buone intenzioni, per il personale carcerario tutto si riduce ancora una volta a “sorvegliare e punire”. La cosa è ancora più triste quando si tratti di carceri minorili, in cui la giovane età dei reclusi si presta a essere particolarmente recettiva a proposte educative capaci di suscitare interesse e di colmare il vuoto interiore, aprendo al recupero di una nuova progettualità di vita. Mentre, in un ambiente ostile, che alimenta paura, odio e rancore, disagio sociale e inclinazione a delinquere non possono che cronicizzarsi.

È evidente che le strutture carcerarie sono ormai obsolete, non sono adatte ai compiti educativi e riabilitativi loro assegnati: tutta l’organizzazione va ripensata. Il problema dovrebbe essere oggetto di ampio dibattito, per immaginare soluzioni degne di un moderno paese democratico, che sappiano coniugare rispetto per la dignità della persona ed efficienza progettuale per un futuro di speranza.

A coloro che non lo conoscono e a quelli che ancora lo ricordano suggerisco la visione del film di Stanley Kubrick Arancia meccanica.

Psicologo e psicoterapeuta. Fondatore e responsabile scientifico di Fondazione Lighea Onlus.

Lascia una risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *