L’indomani della strage di Bruxelles, superato lo sgomento delle prime ore, ricordo di aver cominciato a leggere i giornali con un senso di rabbia crescente. Non solo quella ovvia nei confronti dei terroristi. Provavo a immaginare quale sarebbe stata la mia reazione se fossi stato uno di loro, un terrorista, o almeno un simpatizzante. E dovevo rabbiosamente ammettere che avrei gridato vittoria su tutti i fronti.
Al di là delle parole di rito delle autorità politiche – «Non cederemo», «Non diventeremo schiavi del terrore» e simili – non c’era articolo che non seminasse paura, che non sottolineasse l’impotenza, l’impreparazione, la divisione del Belgio e dell’Europa intera di fronte al nuovo attacco, non c’era analisi che non segnalasse l’astuzia, l’organizzazione, la determinazione dei kamikaze, non c’era commento che non evocasse la guerra e la sua ineluttabilità.
Qualche settimana fa, per la strage di Nizza, si è ripetuto un copione analogo. Solo che la scena si è svolta non lontano dai miei occhi, perché la sera del 14 luglio ero proprio lì, a Nizza, dove ho un piccolo appartamento, proprio sulla Promenade des Anglais. Proprio nel punto in cui il camion assassino ha cominciato a schiacciare i turisti, come fossero insetti fastidiosi. Da casa ho sentito un gran colpo, pensavo a un incidente. Poi ho sentito le urla di terrore, e sono sceso in strada: ho visto i primi corpi straziati, la panchina sulla quale mi fermavo a leggere il giornale era stata spazzata via insieme ai suoi occupanti. Restava una carrozzina vuota, quasi intatta. Non ho avuto il coraggio di guardare oltre. Una signora mi ha spiegato che quello del camion aveva fatto apposta e che più avanti, sulla passeggiata, c’erano almeno venti corpi per terra. E mandava maledizioni e improperi verso quell’assassino. L’indomani i morti erano più di ottanta, e la passeggiata era tutta una chiazza rossastra. Ma mentre i giornali di nuovo si riempivano di terrore e di proclami di guerra, e l’ISIS ancora una volta si appropriava, con ritardo sospetto, del diritto d’autore, nel giro di qualche ora tutte le macchie erano state nascoste da una coperta di fiori mentre un cumulo di spazzatura copriva il punto in cui era stato ucciso l’assassino.
Adesso, dopo quasi due mesi, ci sono ancora tanti fiori, le macchie faticano ad andar via perché ha piovuto poco. La Promenade è piena di gente di tutte le razze, bimbi in monopattino, ragazzi in roller, coppie che fanno jogging. E i giornali continuano a mitizzare più o meno involontariamente l’ISIS, che furbamente si appropria della paternità di tutte le nefandezze che fanno notizia. Da lettore incazzato, manderei almeno tre richieste di rettifica. Ma da ex direttore so che le rettifiche non servono, e lasciano il tempo che trovano. Perciò ve le scrivo qui, fuori testata, le mie tre precisazioni, con la speranza di aprire un dibattito.
Primo: non è vero che è una guerra
Secondo: non è vero che abbiamo paura
Terzo: non è vero che sono superuomini
Primo: non siamo in guerra perché le guerre si fanno con gli Stati, contro gli Stati. L’Isis – anche se, non tutti lo sanno, è l’acronimo di Islamic State Irak Siria – non rappresenta affatto né l’Irak né la Siria. È un Califfato, che va combattuto dagli Stati in cui si è sviluppato e in cui ha instaurato un regime legittimato solo dal terrore e dalle armi, alimentato finanziariamente da furbacchioni senza scrupoli che si fingono nostri alleati. Lì, e soltanto lì, è la guerra. Noi non siamo in guerra. Lo saremo se e quando decideremo di mandare i nostri soldati a combattere. Non è una differenza solo formale. Non dobbiamo cadere nel tranello della guerra finchè non abbiamo chiaro chi sono i nostri alleati, chi sono i nostri nemici, e chi sono i loro amici. E quale sia la cosiddetta exit-strategy. Non solo in Siria e in Irak ma anche in Libia.
Non è una guerra perché qualsiasi guerra, per quanto disumana, presuppone delle regole, una pace, una resa, un vincitore. Mentre qui la vittoria finale non è in palio: non ha senso chiedersi se ma soltanto come e quando il mondo civile formato da sette miliardi di persone avrà ragione di qualche migliaio di fanatici criminali. Tanto meno è una guerra di religione: insieme ai cristiani, l’Isis ammazza nel nome di Allah i seguaci di Allah. E non è vero che Allah ha promesso 72 vergini a quelli che si fanno saltare in aria. Il Corano le promette a tutti quelli che vanno in Paradiso, non solo ai kamikaze.
È un’idiozia chiamare estremista islamico chi vuole sterminare sette miliardi di infedeli.
Sarebbe come chiamare estremisti cattolici i nazisti che sterminarono gli ebrei. Sono solo criminali. Contro di loro non serve una guerra. Aggiungerebbe migliaia di morti. E alimenterebbe migliaia di vendette. Dobbiamo bonificare il terreno di cultura in cui crescono, dobbiamo infiltrare i loro vertici come abbiamo a suo tempo imparato a fare con il terrorismo politico, dobbiamo mettergli contro non portaerei e carri armati ma guerriglieri armati di intelligence e di astuzia. E dobbiamo soprattutto usare meglio di loro l’arma della comunicazione, evitando di enfatizzare i loro crimini col rischio di solleticare lo spirito di emulazione di tanti sedicenti soldati di Allah e invece censurando, minimizzando, svilendo, ridicolizzando dove e quando possibile. Ci vorrà tempo. Ci saranno altre vittime innocenti. La partecipazione al lutto dei nostri vicini non basterà più. Dovrà tradursi in alleanza. Non santa, per carità.
Non abbiamo paura. A Bruxelles come a Parigi, come a Nizza ma anche a Roma a Berlino e a Madrid la gente va negli stadi, al cinema, in metro, nelle chiese e nelle moschee, in aereo, in treno, in discoteca. Checché ne dica Allah le ragazze girano in minigonna e cominciano a prendere il sole in bikini, gli omosessuali non solo fanno outing, addirittura si sposano, le donne guidano l’auto e la moto, fanno perfino gare. Migliaia di persone di tutte le età partecipano alle marce non competitive. I kamikaze suicidi dell’Isis non hanno condizionato il nostro modo di vivere, non hanno scalfito la nostra libertà. Certo, c’è in giro tanta polizia. A protezione dei cosiddetti siti sensibili. Come se fosse possibile prevedere una protezione per tutti i punti di assembramento, quelli elencati sopra e poi anche i grandi magazzini, le uscite di scuola, i teatri… Siamo seri: una vera difesa, contro il terrorismo suicida, non c’è. Certo è giusto fare tutto il possibile per limitare i rischi, come facciamo con gli incidenti stradali e con i disastri naturali. Ma avremo altri kamikaze, altri morti, più o meno vicini, e sarà indispensabile imparare a convivere con questa maledizione, in attesa di poterla debellare, com’è accaduto con la peste, con la lebbra, e come accadrà con il cancro.
Non occorre un cervello politico particolarmente raffinato per fare proselitismo tra i giovani disadattati delle banlieue francesi, o tra delinquenti comuni disposti a tutto per guadagnare soldi, o per educare all’odio anticristiano e antiebraico rampolli di famiglie devastate dalla polizia o dall’esercito israeliano. Quanto agli esecutori materiali, quelli che tagliano la testa dei malcapitati prigionieri, quelli che si imbottiscono di esplosivo per saltare in aria insieme alle loro vittime, quelli che fanno strage di pedoni sul lungomare, alcuni tra i loro simili li chiamano eroi, ma non sono superuomini, e non finiranno mai su un libro di storia. Gli studiosi che hanno analizzato le loro caratteristiche statisticamente peculiari parlano di individui contrassegnati da scarsa autostima, succubi delle organizzazioni che li hanno formati al martirio, incapaci di tirarsi indietro dopo una prima adesione perché terrorizzati dall’onta del disonore. E le eccezionali capacità organizzative? Serve davvero particolare acume strategico per salire su un metro con un corpetto imbottito di esplosivo? E cosa dire della meticolosità dei preparativi? A Bruxelles la bomba più grossa non è arrivata a destinazione perché non ci stava nel bagagliaio del taxi. I terroristi ne avevano prenotato uno più grande, ma la disorganizzazione degli infedeli li ha costretti ad accontentarsi.
Così ci sono stati una cinquantina di morti in meno. E a Nizza il camion assassino anziché essere imbottito di tritolo, era pieno di armi finte e, se si fosse mosso un quarto d’ora dopo, i morti sarebbero stati centinaia. Tanti si sono salvati per puro caso. O forse per un miracolo di Allah.