Psiche

Nel mercato della felicità rischio di perdermi come in un labirinto

Tra consigli e ricette “infallibili” mi sento un po’ come se mi consegnassero una confezione di Lego da 200 pezzi per riprodurre la Cappella Sistina: non è che avere il manuale d’istruzioni mi aiuti molto

In una delle ultime riunioni di redazione, prima della pausa estiva, si è discusso della Felicità, dea sfuggente, inafferrabile, presenza sempre temporanea. Abbiamo deciso di ospitare contribuiti più o meno articolati sull’argomento: dopo la ricetta proposta da Joaquin Otuvas e i consigli per imparare a “cadere” di Sara Schirripa, ecco qual è la strada da seguire per non perdersi tra le mille ricette per la felicità.

“La felicità esiste, ne ho sentito parlare”. Prendo a prestito questa frase di Gesualdo Bufalino per parlarvi di felicità perché, devo ammetterlo, è la considerazione più onesta che io possa fare sul tema. E questo è bene che lo sappiate: in generale chi vi parla di felicità, e in taluni casi pensa di volervi insegnare il segreto per trovarla, non è necessariamente una persona felice, o almeno non così come potremmo immaginarla. Al netto di qualche impostore, per la maggior parte si tratta di persone di buona volontà che ci stanno ancora provando, anche solo a capirci qualcosa. Ma chi sono queste persone? Un tempo erano i filosofi a guidare gli uomini in questa ricerca, ma i loro eredi con le loro parole dense, complesse e cariche di richiami faticano a fare breccia nella comunicazione odierna che brama rimedi facili e soluzioni veloci. Ascolto Salvatore Natoli in una delle sue conferenze sulla fioritura di sé e ne rimango affascinata, ma non più felice.

Se cerco qualcosa di più pratico invece non ho che l’imbarazzo della scelta: il mercato della felicità pullula di studiosi dell’anima convertiti in professionisti del benessere. Dai manuali di auto-aiuto ai tutorial online sono inondata da regole di life coaching impastate a pillole di pensiero orientale: svegliati presto, ama te stesso, realizza i tuoi sogni, medita, coltiva la meraviglia, sii gentile, trova il tuo ikigai, regalati del tempo, circondati di belle persone, sorridi, sii grato, credi in te stesso. Sui social un esercito di psico-esperti mi illumina ogni giorno con frasi motivazionali sull’importanza di non procrastinare, dettagliati piani d’azione per conquistare l’obiettivo in pochi step e massime come: “Il dolore è inevitabile, l’infelicità è una scelta”. L’impressione immediata è che suoni tutto molto convincente e di buon senso, ma anche frustrante. Un po’ come se mi consegnassero una confezione di Lego da 200 pezzi per riprodurre la Cappella Sistina: non è che avere il manuale d’istruzioni mi aiuti molto.

La sensazione sgradevole che mi resta addosso è però – nella migliore delle ipotesi – quella di trovarmi di fronte qualcuno che si illude di trovare la felicità insegnando ad altri come trovarla, in un cortocircuito da cui nessuno ne esce un granché più felice.

Nella peggiore delle ipotesi, invece, non posso fare a meno di avvertire come dietro tutte quelle belle ricette a base di “qui e ora” e “resilienza” ci sia solo l’intenzione di vendermi qualcosa: puoi costruire la Cappella Sistina anche tu con il mio video-corso in 10 lezioni (la prima è gratis!).

Non rimane che il buddismo. Tutti i buddisti che conosco sembrano felici. Non è così naturalmente, e basta poco per scoprire che la maggior parte dei praticanti è come chiunque altro alla disperata ricerca di risposte, solo che lo fa ostentando una patina di calma e benevolenza che non gli appartiene, ma che forse lo aiuta a crederci un po’ di più. Nei Maestri invece sì, in qualcuno di loro un barlume di felicità l’ho visto, e mi fa pensare che la strada sia quella giusta, o almeno quella che più si avvicina all’ideale greco di eudaimonia, che apre alla possibilità di una felicità più stabile, non limitata a isolati momenti di gioia. Considerando però, che secondo il Dalai Lama un serio praticante – uno che pratica veramente e seriamente tutti i giorni – vede il primo piccolo risultato dopo 30 anni di pratica, non penso davvero di essere la persona giusta per parlarvi di felicità (non ancora almeno, magari tra 30 anni). 

Posso però parlarvi di infelicità e in particolare di quel tipo di infelicità che molte persone hanno sperimentato in questi mesi di “eternantena”, contraddistinta da scarsi entusiasmi, poca motivazione e un calo graduale di tutti gli umori, positivi e negativi, simile al lento affievolirsi di una lampadina dimmerabile di cui non sei più tu a regolare la luminosità. Qualcuno la descrive come una mancanza di vitalità, uno spegnimento o una sorta di evanescenza, per molti un sentirsi prosciugati, avvizziti, esauriti. Persi nel labirinto, non come Teseo senza il filo, ma come il Minotauro che gira desolato in circolo per le stanze della sua prigione. 

E come si trova la strada in un labirinto? Più dei manuali, degli aforismi e delle riflessioni dei dotti talvolta la scintilla può arrivare inaspettata dal mondo dell’immaginario, che sa parlare a parti di noi meno razionali e rimuginanti. Capita così d’incontrare in Dolor y Gloria di Pedro Almodóvar un uomo alle prese proprio con questo senso stagnante di vuoto in grado di soffocare ogni tentativo di felicità. Lui si chiama Salvador, è stato un famoso regista, ma trascorre ormai da tempo le proprie giornate chiuso in casa, preda di ansie e disturbi psicosomatici, in un piccolo mondo fatto di abitudini, ossessioni e consumo di stupefacenti. Inaridito e sfibrato, vaga prigioniero del suo labirinto, continuando a imboccare sempre lo stesso corridoio che lo riporta al punto di partenza. Dolor y Gloria… y Deseo dovrebbe essere il titolo completo di questo film, perché è il desiderio la chiave che risveglierà in Salvador un’energia che credeva sepolta e lo ricondurrà nel regno dei vivi. Un’energia vitale che culture diverse hanno nominato in svariati modi, e che con il linguaggio della psicologia potremmo chiamare Eros: una pulsione che non si riduce al sentimento amoroso o alla dimensione del corpo, ma che innerva i nostri bisogni più profondi, una linfa senza la quale ci limitiamo a lasciarci vivere. Quando la perdiamo non possiamo che sentirci profondamente infelici, talvolta senza nemmeno capire perché. L’innesco per riaccenderla può essere il desiderio, come per il protagonista del film, o un’altra emozione in grado di scuotere l’animo intorpidito, a patto di saper mettere in atto un movimento opposto rispetto alla corrente che ci ha portati così lontani da noi. 

Arthur C. Brooks, uno degli esponenti attualmente più in voga di quell’approccio pragmatista sulla felicità di cui sono imbevuti i guru di Instagram, sostiene che quando siamo felici siamo invogliati ad agire, mentre l’infelicità ci spinge a rimanere nel nostro bozzolo, suggerendo quindi come espediente di fare l’opposto di ciò che vorremmo. Un po’ semplicistico forse, ma con un fondo di verità. Quando ci sentiamo infelici, focalizzarci su “ciò che vorremmo” è spesso ingannevole, perché specchio di una condizione negativa e distorta della realtà del momento, che rischierebbe solo di perpetuare le stesse dinamiche. In questo senso “fare l’opposto di ciò che vorremmo” può essere l’avvio per invertire il senso di marcia, imboccare un’altra strada e riaccendere quell’energia vitale che ci sostiene. Per Salvador, che recluso nel suo appartamento rifiuta ogni occasione d’incontro con l’altro, “dire no” a ogni invito sociale è ormai un gesto abituale e automatico, fuggire lo sguardo altrui è ciò che vuole, ciò che lo rassicura, ma che lo ingabbia ogni volta. Sarà invece un singolo gesto in moto contrario, un “dire sì” a un uomo del passato che bussa alla porta nel mezzo della notte, a innescare tutti gli eventi che lo libereranno dalla sua prigione, dando forma al suo nuovo film: El primer deseo, il primo desiderio.

Così come esistono molti modi di essere infelici, non esiste un metodo universale per trovare la felicità e nessuno in grado di addestrarci a farlo. Possiamo leggere, ascoltare, sperimentare, ma nessuna ricerca potrà prescindere dall’osservazione attenta e implacabile della nostra particolare infelicità, che spesso alimentiamo in modo inconsapevole tutte le volte che scarichiamo la responsabilità del nostro disagio su qualcun altro o non riconosciamo i vantaggi secondari che quel malessere ci regala. Senza questo passaggio ogni attività di conquista della felicità rischia di rimanere solo una dichiarazione d’intenti, un gradevole passatempo a base di citazioni letterarie, lezioni di mindfulness e passeggiate nei boschi. E invece solo lì, in quelle dinamiche cristallizzate dall’abitudine, nelle aspettative che limitano il nostro sguardo, nelle storie che continuiamo a raccontarci su noi stessi, in quegli schemi che facciamo partire in automatico, che possiamo riconoscere dove abbiamo iniziato a percorrere in circolo la stessa curva del corridoio e in quel punto provare a fermarci e azzardare una manovra contro mano. 

Psicologa. Lavora con le storie: lette, ascoltate, raccontate, vere o sognate non importa, ma sempre comunque terapeutiche.

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