Psiche

La colpa non è mai del cavallo

Assistiamo a tutti i livelli al manifestarsi di un atteggiamento vittimistico che attribuisce a fattori esterni la causa di insoddisfazione, difficoltà, malessere. Per acquisire consapevolezza del nostro disagio sarebbe meglio spostare lo sguardo dal mondo esterno al mondo interno, porci domande, analizzare i nostri vissuti e i nostri comportamenti, fare di noi stessi il campo di osservazione.

Un ragazzino sta imparando a cavalcare sotto l’occhio esperto dell’insegnante di equitazione. Monta, cade, si rialza, riprova… cade, si rialza, monta di nuovo… cade, si rialza, riprova… cade… si rialza… monta di nuovo… Dopo una lunga serie di tentativi sbotta: “La colpa è del cavallo!”. L’istruttore, che l’ha osservato in silenzio, ribatte severo: “La colpa non è MAI del cavallo!”.

Ho costretto i miei figli a vedere più volte questo piccolo cartone animato che trovo particolarmente educativo, nella speranza che facessero tesoro del suo insegnamento.

Apro il giornale e ogni mattina mi imbatto in notizie che mi ricordano il cavallo. Il governo non riesce a rispettare i tempi del PNRR? La responsabilità è del governo precedente.  Le amministrazioni locali si trovano in difficoltà di fronte al dissesto del territorio? La rete del trasporto pubblico è insufficiente? La raccolta dei rifiuti inadeguata? La colpa è di chi ha amministrato prima. Il sistema sanitario, il sistema scolastico evidenziano gravi carenze? Sono il risultato di scelte sbagliate fatte in passato. E così via, scendendo giù, giù, fino ai casi individuali. Lo stesso meccanismo vittimistico ha contagiato la società intera. Una costante dei primi colloqui con chi viene da me per iniziare una psicoterapia è il lungo elenco delle cause alle quali attribuisce il suo disagio: il marito/la moglie che non lo capisce, la separazione dei genitori, l’abbandono dell’amato/a, un trauma infantile, un’ingiustizia perpetrata a suo danno…

“Mio marito non mi parla… non mi ascolta… non risponde… è pigro… è noioso… non fa più… non dice più… non è più…” Dopo un’ora di questa litania mi viene da dire: “Signora, il nostro lavoro finisce qui. Mi mandi suo marito”.

Dalla poltrona del mio studio ascolto quotidianamente un’interminabile fila di recriminazioni: “Ce l’ha con me”. Alternativamente l’insegnante, il capo ufficio, il collega, il vicino di casa…

“Faccio un lavoro che non mi piace perché mio padre mi ci ha costretto”.

“Mio marito non mi capisce”.

“Mia moglie non mi capisce”.

“I miei genitori hanno sempre preferito mio fratello”.

“Lui/Lei mi ha fatto fare”.  “Lui/Lei mi ha costretto”.  “Lui/Lei mi obbliga”.  “Lui/Lei mi soffoca”.

Non si vuole certo negare che ci siano vicende indipendenti dalla nostra volontà che hanno conseguenze sulla vita di tutti noi, tuttavia l’attribuire costantemente a fattori esterni la causa di errori, fallimenti, insoddisfazione, disagi, malessere alimenta un vittimismo che ci riduce a oggetti manipolati, privati di identità.

Continuiamo a comportarci come bambini che picchiano il seggiolone da cui sono caduti attribuendogli la responsabilità dei loro lividi. Invece non siamo oggetti che fatalmente subiscono, né vogliamo esserlo, ma soggetti coinvolti in una trama di relazioni con altri soggetti. E dire che già Socrate aveva trovato la giusta chiave di lettura: “Conosci te stesso”. Poi, a distanza di più di duemila anni, è arrivato anche Freud con la scoperta dell’inconscio. Solo guardandosi dentro, ovvero facendo di noi stessi il campo di osservazione, è possibile farsi domande, magari capire, forse trovare risposte. È importante acquisire consapevolezza dell’ambivalenza che ci spinge a leggere nello sguardo dell’altro un giudizio su di noi che è nostra proiezione, conferma di quanto pensiamo, contribuendo a determinare il comportamento reciproco. Se provo, per esempio, un senso di colpa, a ragione o a torto, sarò portato a vedere negli occhi che si posano su di me un atto di accusa, nel mio interlocutore un giudice severo, e a interpretare in questa chiave i nostri rapporti. Riflettere sul mondo interno ci porta a passare da vittime inconsapevoli a vittime consapevoli. Parrebbe una formula semplice. Invece no. Spostare lo sguardo da fuori a dentro comporta fatica, anche sofferenza, e richiede tempi lunghi di maturazione, ma, come la crescita, non ammette scorciatoie.

Psicologo e psicoterapeuta. Fondatore e responsabile scientifico di Fondazione Lighea Onlus.

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