“Sacro è il sole che sorge negli occhi stanchi di un asino…” (F. Arminio)
La poesia è il luogo della magia, la radura nella quale suono e significato si fondono e l’uno non può fare a meno dell’altro. Una persona cara mi ha donato questa e altre poesie che mi hanno fatto riflettere a lungo; curiosa cosa la poesia, alcune ti avvitano un cavatappi in testa che ti rimane giorni e giorni, a volte anni.
La parola sulla quale vorrei proporre una riflessione è “sacro”: che fine ha fatto il sacro? Che cosa comporta la scomparsa del sacro? Spesso lo associamo alla religione, alla fede, alla chiesa; la poesia di Arminio a mio modo di vedere ci suggerisce che sacro non è una categoria dell’anima ma, al contrario, una modalità del guardare, una particolare angolazione con la quale pensiamo e ci pensiamo.
Il sacro, dunque, non è suscettibile alla confutazione della ragione, non fa la fine della religione che vista con gli occhi del Rasoio di Occam[1] appare come una tra le tante favole che ci si racconta per lenire la paura; il sacro rimane tale sempre, impermeabile alla scienza, alla politica, alle ideologie.
Il sacro è lì a indicarci che ciò che abbiamo davanti agli occhi è unico, irripetibile, che tutto il senso delle cose può essere racchiuso in un petalo di fiore, che una vita passata a ricercare il fiore perfetto non è una vita sprecata, come ci dice il Bushido[2].
A uccidere il sacro, a lasciarlo a terra esangue, è la superficialità, il pensiero prepensato, cotto e impiattato, che ci suggerisce che in fondo l’importante è essere più degli altri, anche se non sappiamo cosa sia davvero essere.
Il ministro che candidamente confida alla cronista di non aver letto i libri in un concorso letterario che lo vede tra i giudici, oltre a dare una buona dimostrazione di banalità, uccide il sacro nel senso che disconnette quel legame tra terra e cielo, quel dito che indica la luna.
Ma non dobbiamo perderci d’animo, perché se il sacro a volte muore, da sempre risorge come l’araba fenice proprio dalle proprie ceneri e allora proprio gli occhi stanchi dell’asino lo fanno risorgere.
A conti fatti mi sembra che sia proprio l’improbabile, lo scontato, lo sfondo che diviene figura, ciò che improvvisamente fa da sfondo al sacro. La condizione di possibilità che riconsegna valore e senso alla vita, che la connette con il cielo, arriva all’improvviso, una folata di vento, il sorriso di un bambino, occhi spalancati sul mondo.
Allora quando penso a questo mi sento la persona più fortunata del mondo perché ogni volta che davanti a me le persone si aprono, mi consegnano il proprio dolore, lo sguardo, il respiro, il silenzio, aprono uno spazio enorme e delicatissimo che impone delicatezza, tempi lenti e tanta cura.
Allora proprio in quei momenti, quando la sofferenza ha il suono del silenzio, la fatica del respiro, l’odore acre del sudore, in quel momento torna prepotentemente il sacro a urlare con voce tonante che dentro di noi abbiamo luce e visione chiara: come direbbe il filosofo Emanuele Severino, “siamo Dei che si credono mortali”; allora si torna a casa stanchi ma sereni.
[1] Conosciuto anche come principio di economia, o principio di parsimonia, è un principio metodologico che indica di scegliere tra più soluzioni egualmente valide di un problema quella più semplice. Venne formulato nel XIV secolo dal filosofo e frate francescano Guglielmo di Occam ed è ritenuto alla base del pensiero scientifico moderno.
[2] Codice di condotta e uno stile di vita – simile al concetto europeo di cavalleria e a quello romano del mos maiorum – adottato dai samurai, cioè la casta guerriera in Giappone.