Proprio mentre infervora la discussione sul patriarcato che sopravvive nel nostro mondo occidentale, non ci siamo accorti che intanto c’è stata l’evaporazione del padre. In un clima di omologazione dei sessi, viene considerato un “buon padre” quello che svolge un ruolo di accudimento e protezione, sovrapponendosi in qualche modo al ruolo materno. Ma se proprio li vogliamo chiamare “genitore 1 e genitore 2”, sono le funzioni materne e paterne che dobbiamo tenere presenti, affinché lo sviluppo e la crescita siano accompagnati in modo equilibrato, funzionale e armonico.
La funzione tradizionalmente considerata materna è appunto quella di protezione, di devozione al piccolo essere umano totalmente incompetente, per portarlo ad acquisire con tempi propri quella fiducia in se stesso che poi lo renderà capace di affrontare il mondo esterno. Se l’accudimento materno sarà riuscito, il mondo della protezione, dell’accettazione incondizionata, costituirà un patrimonio emotivo di esperienza positiva a cui ricorrere nei momenti di crisi.
La tradizione voleva che il ruolo del padre fosse quello di fissare regole di comportamento ed educare i figli a rispettarle, di accompagnarlo nel distacco dal luogo affettivo familiare per affrontare le prove del futuro nel mondo esterno, difficili ma anche stimolanti, e di fare da guida all’assunzione di responsabilità e all’accettazione della solitudine che la vita adulta comporta.
Se va evitata la corruzione della funzione paterna nell’autoritarismo sopraffattore del patriarcato, va evitata d’altro canto anche la sedimentazione negativa della funzione materna in una over-dose di protezione e attutimento delle frustrazioni, in cui entrambi i genitori fanno a gara per difendere, proteggere ed edulcorare.
Quali sono, allora, le funzioni che spettano oggi al padre, che non ricalchino il patriarcato autoritario ma che non sfocino nella sovrapposizione tra i due ruoli genitoriali, con il risultato – appunto – dell’evaporazione del ruolo paterno? Innanzi tutto “assistere”, dal latino assistĕre, ovvero ad- e sistĕre, “stare accanto”, essere al fianco, abbandonando quella tonalità genitoriale di chi ricorre all’autoritarismo per mancanza di autorevolezza. Assistere, dunque, per facilitare l’espressione e l’utilizzo delle risorse del figlio. “Affiancare”, quindi non sostituirsi ma sostenere, lasciando così al figlio il merito del risultato raggiunto.
“Ascoltare”: come genitori sentiamo di essere chiamati più a parlare e insegnare che non a far parlare; è invece importante predisporsi ad ascoltare, per aiutare a trovare le parole. È importante anche saper “vedere” il proprio figlio: guardarlo come sempre uguale, rimandandogli cioè una rassicurazione di continuità, ma anche sapendo che ogni giorno avrà apportato un’aggiunta di esperienza e di patrimonio emotivo. Il più delle volte accade invece che i padri siano bisognosi dell’approvazione dei figli e che perdano di vista quale grande contributo alla formazione della identità e della autostima risieda nel sorriso o nello sguardo di un genitore che vede il proprio figlio.
Certamente tra le funzioni del padre c’è anche quella di “proteggere”, che non significa evitare o indignarsi, ma favorire una modulazione dell’esperienza perché sia sopportabile. Così come conta il “passaggio di competenze”, quello che permette di mostrare come si reagisce alla frustrazione, a un attacco, al tradimento o a un abbandono. In questo senso anche la “valorizzazione delle risorse” è una competenza da trasmettere, testimoniando come a volte siano proprio le situazioni di crisi quelle che consentono di scoprirsi più forti di quanto noi stessi pensassimo. “Abbandonare l’idolatria della volontà”, mostrare che non è vero che volere è potere: certo, a volte la realtà può richiedere un ulteriore sforzo, ma ci sono situazioni in cui proprio le cose non vanno come vorremmo ed è qui che la presenza del padre può insegnare anche a tollerare lo smacco, ad accettare. In questa direzione va anche il “rapporto con i limiti”, che vanno valorizzati nella loro fondamentale funzione a livello di pensiero. Si possono contestare, aggirare, subire, rifiutare, accettare, modificare, trasgredire: la varietà di atteggiamenti che assumiamo di fronte a essi costituisce l’articolazione della nostra esperienza di noi stessi e della nostra autostima.
Ecco che allora il paterno non ha tanto a che fare con l’imposizione delle regole, che in una società relativizzata non troverebbero contesto, quanto piuttosto con la trasmissione e la condivisione di esperienze anche negative, e delle risorse utilizzate per superarle. Essere padre significa volere il bene del figlio e non proiettare su di lui attese, desideri, modelli di realizzazione.
Non va mai dimenticato, in questa riflessione, che la relazione genitore-figlio è e deve restare una relazione asimmetrica e che questa qualità della relazione comporta una assunzione di responsabilità ma non autorizza una posizione di potere. Ed è una responsabilità che non va delegata troppo precocemente: molti genitori di adolescenti dicono con orgoglio: «Ho completa fiducia in mio/a figlio/a», rinunciando così a esercitare la funzione di controllo che a loro compete. Le parole hanno più che altro il suono dell’autocompiacimento, ma quando si tratta di ragazzi molto giovani (minori) equivalgono a una delega troppo precoce di responsabilità, in un’età come l’adolescenza che non sa reggerne il peso ed espone i ragazzi e le ragazze ai pericoli della mancanza di competenza.
E allora, se vogliamo superare il patriarcato senza scadere nell’eccesso di accudimento, forse la chiave è sostituire l’autorità genitoriale con la presenza, solida e contenitiva. Una presenza che racchiude in sé tutte le funzioni che abbiamo elencato e che mette al centro il figlio, a cui viene lasciato tutto lo spazio di sperimentare, scegliere e sbagliare, ma con lo sguardo e l’ascolto che proprio la presenza sa garantire.