È per me più di quanto lo sia io stessa

L’amore della letteratura è sofferenza, struggimento, una freccia scoccata nonostante tutto, a cui non ci si può sottrarre. Com’è che questa visione dell’amore si sposa con il quotidiano che viviamo?

Lui è sempre – sempre – nella mia mente; non come un piacere, così come neanche io sono sempre un piacere per me stessa, ma come il mio proprio essere”.

(Emily Brontë, Cime Tempestose)

 

Viviamo in un mondo molto confuso: è difficile definire l’amore e le cose in generale, e spesso tutto sembra molto sbagliato. Le esigenze, giustamente, sono cambiate e adesso tutti noi pretendiamo delle risposte più precise e inclusive.  Ma di cosa parliamo quando parliamo d’amore?  Quali sono le convinzioni, le immagini, qual è il terreno in cui affondano le radici di ciò che chiamiamo amore?

Saffo, all’interno dell’unico componimento che ci è giunto intero (Inno ad Afrodite), scrive: Chi devo, Saffo, ancora persuadere a darti ricompensa nell’amore? Chi ti fa soffrire? Se adesso fugge, poi ti cercherà; se sdegna i tuoi doni, presto ne farà; se non ti ama, presto ti amerà, anche se non vuole”. L’amore è, già qui, da subito, intrinsecamente collegato alla sofferenza. Catherine non può vivere senza l’amore di Heathcliff, perché lei non è niente senza di lui, e la splendida Saffo non può rassegnarsi al non amore, perché questo le causerebbe un’infelicità perenne.

 

Ma come può una disperazione così intensa essere “risolta” dall’intervento di qualcosa di esterno?

 

Si possono fare innumerevoli esempi di questo genere, perché la nostra letteratura si è basata per secoli sulla concezione dell’amore come uno stato di dipendenza e di — quasi — stregoneria. Il personaggio veniva “colpito” dalla potenza di questo sentimento e non poteva fare niente per contrastarlo. Doveva rassegnarsi alla ferita causata dalla freccia di Cupido, anche se la freccia poteva essere mortale.

Oggi siamo certamente più consapevoli di cosa cercare e cosa non cercare in una relazione, di cosa è distruttivo e di cosa non lo è, almeno in teoria. Ma, nei fatti, non è che riusciamo sempre a scansarci, quando la freccia viene scoccata, anche perché intorno a noi i modelli sono ancora, molto spesso, quelli che coniugano amore e sofferenza in maniera indelebile, in una fiction che ha sempre meno a che fare con la vita reale.

Roland Barthes, in Frammenti di un discorso amoroso, sviscera con estrema acutezza le difficoltà che tutti noi prima o poi riscontriamo all’interno di una vita che, come presupposto, contiene anche l’amore. Dice: Non sarà invece che resto sospeso alla domanda (di cui aspetto instancabilmente dal volto dell’altro la risposta): che cosa valgo io?”.

Ci sentiamo dipendenti da un’altra persona perché l’altro riflette noi stessi e noi abbiamo bisogno di specchiarci in qualcuno per riconoscerci; e inoltre abbiamo bisogno di sapere che possiamo essere utili a qualcuno. La sensazione di dipendenza non deriva esclusivamente da una dipendenza attiva anzi, spesso dietro quest’ultima si cela la necessità di essere indispensabili per l’altro. Siamo condannati alla ricerca di un senso e questo vale anche — e soprattutto — per il sentimento amoroso.

La sofferenza romantica è affascinante e lo rimarrà sempre. La drammaticità dell’amore resterà sugli schermi e nelle pagine dei libri che verranno. Ma penso che la giusta consapevolezza stia proprio nel ricordarsi che il romanticismo non è amore e che le parole incise su due pagine gialle non possono racchiudere la verità di una relazione che dura per anni.

Come scrive Franco Arminio, un famoso poeta contemporaneo, in Brevità dell’amore: Portami dove c’è il mondo, non dove c’è la poesia”.

 

Caterina de Filippis

"Ventenne, studia filosofia e frequenta un'accademia di scrittura. Vive con tanti, infiniti, immensi libri."

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