Attualità

Dobbiamo evitare che i bambini facciano indigestione di male

Come nello svezzamento introduciamo gradualmente i cibi solidi così dobbiamo gestire l’esposizione dei bambini ai fatti più indigesti

Qualche settimana fa la Senatrice Liliana Segre si è detta contraria a che le scuole portino gli alunni in gita a visitare i campi di concentramento. Poco prima  era stata diffusa la notizia di tre ragazzine che avrebbero postato sui social un selfie mentre facevano il saluto romano durante una visita ad Auschwitz.

Il tema è ampio e complesso, a mio avviso: in quale misura l’esposizione dei bambini al dolore insegna realmente qualcosa? In quali dosi tale realtà va somministrata perché sia digeribile, e quindi fruibile, senza essere vomitata o respinta in blocco?

Nella mia attività di psicoterapeuta infantile ho osservato come i fatti di cronaca entrino, rivisitati, nei giochi, nei sogni e nelle paure dei bambini senza che gli adulti ne siano necessariamente a conoscenza. Bambini con inspiegabili disturbi del sonno, dopo qualche seduta ricostruiscono l’origine delle loro paure risalendo a notizie lette incidentalmente sullo smartphone dei genitori.  Ci sono canali televisivi che trasmettono news ventiquattr’ore su ventiquattro e che spesso si attivano quando la televisione è accesa e i bambini giocano o studiano nella stanza accanto.

Capita che  le notizie più drammatiche entrino in testa mentre l’attenzione è su altro, creando associazioni, distorsioni, penetrando in una zona d’ombra della mente dei bambini (il preconscio, direbbe Freud).

La realtà, la realtà del male, per intenderci, ha tante sfumature: non è tutto uguale, nella gravità. E come nello svezzamento introduciamo gradualmente i cibi solidi, perché l’apparato digerente dei bambini, dalla bocca all’intestino, deve abituarsi gradualmente, così dovremmo fare anche coi fatti attuali e storici più indigesti: dovremmo insegnare ai bambini a masticarli bene, a deglutirli al momento opportuno, a darsi un tempo per digerirli, trattenendo ciò che serve e lasciando andare ciò che non è utile.

La sovraesposizione crea indigestione: la visione diretta della violenza, che sia in TV o in una gita scolastica, senza una spiegazione della complessità che vi sta dietro, spinge a difendersene; l’identificazione con la vittima crea un senso di impotenza che, in chi è ancora fragile per gestirlo, può essere traumatico, generare dissociazione ed elusione. In bambini più vulnerabili, l’empatia con la vittima può essere troppo soverchiante e portare, per difendersi, a identificarsi con l’aggressore, col più forte.

Cosa può fare una famiglia o un insegnante per creare un fattore di protezione senza isolare i bambini dalla realtà?

  • Innanzitutto adoperarsi per conoscere i bambini che si hanno davanti: spiegare cosa si sta per dire o vedere, chiedere se si sentono di ascoltare o visitare qualcosa di difficile.
  • Chiedere ai bambini cosa fanno quando provano emozioni forti e legittimare il pianto, il bisogno di chiudere gli occhi, il rifugio in un abbraccio.
  • Lasciare la possibilità di interrompere la visita o il racconto se le emozioni si fanno troppo grandi.
  • Condividere e normalizzare la fatica, la voglia di fare domande e la rabbia, alle volte, di non trovare risposte.
  • Sottolineare la propria presenza protettiva e rispettosa, qualunque sia la reazione del bambino.
  • Non dare risposte, se non si hanno, ma promettere l’impegno a cercarle.

Non c’è un limite di età al di fuori del quale questi suggerimenti non siano più validi. Di fronte all’inspiegabilità del male tutti abbiamo una parte bambina che necessita rispetto.

Psicologa psicoterapeuta, si occupa di età evolutiva, genitorialità, trattamento dei traumi e psico oncologia.

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