La tragica morte della psichiatra uccisa da un suo ex paziente ha particolarmente colpito l’opinione pubblica e riacceso il dibattito sulla pericolosità del malato mentale. Dietro le commosse parole di cordoglio per la vittima e le critiche condivise alle carenze dei servizi psichiatrici, si è sentita velatamente affiorare una certa nostalgia dell’istituto manicomiale.
Certo, la chiusura dei manicomi prevedeva il contemporaneo potenziamento dei servizi sul territorio, una rete di ambulatori, comunità terapeutiche a diverso grado di protezione, strutture per la bassa residenzialità e per attività riabilitative, che doveva assicurare cura e assistenza al paziente nei diversi momenti del suo disagio e del suo percorso terapeutico. Così non è stato. Gli strumenti approntati sono risultati inadeguati rispetto ai bisogni della popolazione, sia per l’esiguità del numero che per la qualità dei servizi erogati. Quanto ai ricoveri, necessari in caso di crisi acuta, i reparti ospedalieri funzionano purtroppo spesso come porte girevoli: intervengono sull’urgenza mirando alla remissione dei sintomi attraverso il farmaco, non sempre ponendosi l’obiettivo di progettare un percorso di cura. Il disagio psichico non può essere trattato come una malattia fisica, in cui, superata la crisi, il corpo riacquista la salute o trova un suo assestamento.
Ha sempre un andamento di cronicità, procede con moto ondivago, alternando periodi di fragile equilibrio e momenti di grave alterazione, necessita pertanto di un progetto terapeutico che accompagni il paziente nelle diverse fasi della sua vita e che coinvolga l’intero nucleo familiare, troppo spesso abbandonato alla sua impotente disperazione.
Quanto alla presunta pericolosità, il malato mentale tende piuttosto a volgere aggressività e violenza su sé stesso, raramente le proietta all’esterno. Quando ciò si verifichi, è sempre per una carenza di cure o il loro rifiuto da parte di persone profondamente disturbate, che allora devono essere costrette a curarsi. Questo presuppone però l’esistenza di un sistema psichiatrico efficiente e vigile, capace di seguire e monitorare nella quotidianità il malessere dei suoi assistiti, e di intervenire tempestivamente nei momenti critici.
Ce lo dicono le cronache: i crimini, anche i più efferati e inumani – mariti e padri che sterminano la famiglia, uomini che si accaniscono su mogli, amanti, compagne, ex – li commettono i cosiddetti “sani”, con perfetta lucidità e determinazione, persone descritte da amici e conoscenti come assolutamente normali, bravi lavoratori, genitori amorevoli, onesti cittadini. La patente di matti gliela si dà eventualmente solo a posteriori, magari per trovar loro attenuanti nel corso del dibattito processuale. La pericolosità che l’opinione pubblica gli attribuisce non è qualità specifica del malato mentale, piuttosto un fantasma creato dalle paure di uomini “normali”, una forma di difesa, un modo per prendere le distanze dal mondo misterioso e inquietante della follia.
Quel mondo, fino a tempi relativamente recenti, veniva confinato nel manicomio, non luogo di cura, ma di occultamento della malattia, per allontanarla, rimuoverla, sottrarla al turbamento dello sguardo. La psichiatria è veramente la figlia negletta della medicina, forse anche perché smentisce la sua pretesa alla guarigione: progresso scientifico e tecniche sempre più sofisticate hanno sconfitto gravi morbi e aspirano, un domani, a eliminare, forse, la morte, ma la malattia dell’anima resiste all’onnipotenza della scienza e alla sua ricerca di una causa organica. Non è quindi il caso di investirci troppo…
Il disagio psichico non è omologabile, la diagnosi è una semplificazione che ne trascura la singolarità delle infinite variabili: il paziente non può essere identificato solo da una formula del DSM e ciò richiede non protocolli per interventi standardizzati, ma una progettualità individuale, un percorso terapeutico studiato per ogni singolo individuo in rapporto ai suoi bisogni, al suo disturbo, alle sue risorse.
L’assistenza psichiatrica necessita di una profonda riorganizzazione e di robusti investimenti, sulla base di un serio confronto tra operatori del settore, attenti all’ascolto dei problemi delle famiglie, e con il coinvolgimento dell’Università nella formazione del personale, al fine di stabilire una sinergia di interventi che accompagnino il paziente, attraverso le fasi alterne del suo malessere, lungo l’intero percorso della vita.