Mentre le sale cinematografiche chiudono una dopo l’altra – a fine luglio anche il glorioso Odeon di Milano con i suoi straordinari arredi art déco, destinato a diventare un centro commerciale – e le ultime generazioni non sentono più il fascino dello spazio buio, dove si gioisce, ci si emoziona, ci si commuove, si respira insieme, lunghe file di spettatori si formano davanti ai botteghini dei cinema dove si proietta il film Barbie. Quasi tutti con un tocco di rosa – una sciarpa, una maglietta, le sneakers – qualcuno in rosa integrale. Barbie è il fenomeno di questa estate torrida: attira un pubblico trasversale, giovani e giovanissimi, ma anche nostalgici di mezza età, memori di averci giocato, per la precisione dal 1959, quando la Mattel l’ha immessa sul mercato, sbaragliando la concorrenza.
La pellicola narra di come Barbie abbandoni il suo perfetto universo di plastica rosa per avventurarsi nel mondo reale, scontrarsi con le sue disarmonie e diventare testimonial della lotta per la parità di genere, mentre Ken, che l’ha seguita nella fuga, fa la conoscenza di una cultura patriarcale che assimila e con la quale la nostra eroina dovrà misurarsi. Compaiono anche, in forma caricaturale, i dirigenti della Mattel, preoccupati che la fuga di Barbie danneggi i loro affari.
All’uscita dalla sala i pareri degli spettatori sono discordi e contrastanti. Per alcuni una furba, ancorché godibile, operazione commerciale che dispensa messaggi progressisti in pillole, per altri – e sono la maggioranza – uno spettacolo che con leggerezza metaforica propone concetti profondi. C’è chi inalbera sorrisetti sprezzanti da intellettuale schizzinoso e chi si dice conquistato dal piacere delle immagini, c’è chi si cimenta in interpretazioni sociologiche, filosofiche, psicanalitiche.
Memorabile la prima scena: miti bambine in grembiulino fanno a pezzi i loro bambolotti, che ne sfruttavano il supposto istinto materno, all’apparire di quella icona bionda in costume da bagno e tacco 12. Spazzato via il caramelloso modello bambina – mammina in miniatura, Barbie propone un nuovo tipo di donna: giovane, magra, dinamica, gambe lunghe e seno abbondante, single.
La comparsa di Barbie coincide con una rivoluzione nell’immaginario delle bambine e questo ne fa un mito: è lei a provocarla o arriva semplicemente al momento giusto, interpreta lo spirito del tempo, coglie qualcosa che era nell’aria, dandogli un volto e un corpo?
Certo, si potrebbe obiettare che al cliché della bambina che si prepara al ruolo materno accudendo il bebè si sostituisce un altro cliché, quello di una donna “liberata” pronta per lo shopping, in sostanza un modello consumistico. La Barbie archetipo produrrà una serie di Barbie cloni, vestite e accessoriate secondo i dettami della moda: Barbie sportiva, Barbie modella, Barbie medico, Barbie donna in carriera, Barbie giornalista, Barbie presidentessa, Barbie Premio Nobel, Barbie scienziata, Barbie hostess, Barbie intellettuale, Barbie astronauta, Barbie sirena… attenta all’evoluzione dei modelli culturali e al politicamente corretto, Barbie di colore, Barbie sovrappeso (contro il body shaming), Barbie in sedia a rotelle… Non ha avuto invece successo la Barbie incinta, presto ritirata dal mercato.
Barbie non ha bisogno del Principe Azzurro per sentirsi realizzata. L’atletico Ken, il maschio che le hanno messo accanto, è figura a mezzo tra il fedele corteggiatore, l’amico affettuoso e il cicisbeo. Il modello base produrrà, a sua volta, molti cloni di etnia varia. Le Barbie e i Ken abitano la rosea città di Barbieland, asettico mondo perfetto che non conosce dolore, ansia, malattie, emozioni… non sa piangere… non fa sesso. La sua popolazione è infatti priva di organi e di desideri sessuali. Ken, importando in questo mondo la cultura patriarcale, prende il potere con i suoi cloni e sottopone le Barbie a un condizionamento che le trasforma in ancelle. A questo punto il film lascia l’allusione e la metafora per diventare apertamente didascalico: Barbie scopre che nel suo petto batte un cuore femminista e reagisce, con l’aiuto di una madre e una figlia che vengono dal mondo di fuori. Chiama alla riscossa le compagne in nome dei diritti delle donne e della parità di genere, dando vita a una nuova comunità in cui femmine e maschi convivano armoniosamente senza reciproche prevaricazioni.
Quasi una parabola hegeliana: da un mondo costruito inizialmente tutto in funzione delle Barbie, si passa a un mondo costruito simmetricamente tutto in funzione dei Ken, per approdare alla sintesi post femminista di una ideale società paritaria, in cui vengono riconosciuti a tutti uguali diritti. Alla fine di questo percorso la nostra eroina abbandona la sua città rosa e sceglie di abitare il mondo reale e come primo atto si reca dal ginecologo. In perfetta sintonia con l’evoluzione culturale, Barbie si è fatta interprete di messaggi democratici e progressisti e può vantare meriti pedagogici. Potremmo forse concludere che il marketing ha realizzato il capolavoro di attribuire con successo a un modello in sostanza consumistico funzioni educative, ricavandone grossi profitti.
P.S.
Ho voluto sentire il parere di una mia nipote diciottenne, che ha molto amato la bambola mito, per confrontare la mia sensibilità con quella di una esponente della generazione Z. Ciò che, spettatrice in rosa confetto, dice di avere particolarmente apprezzato sono i due lunghi discorsi (da me liquidati come gli aspetti apertamente didattici del film): nel primo si rivendicano i meriti e i diritti delle donne, nel secondo Ruth Handler, geniale ideatrice di Barbie, esorta la sua creatura a non avere paura di sperimentare, di provare sentimenti ed emozioni, di vivere le proprie scelte. Un altro messaggio ritenuto significativo è la rinuncia di Barbie alla possibilità di un lieto fine con Ken, per scegliere l’indipendenza e accettare il rischio di vivere nel mondo reale. In questo giudizio molte ragazze si riconoscono. Forse hanno ragione loro.