Una foto a colori, in formato 16:9, che ritrae una matrioska smontata: una bambola vuota, di legno dipinto, che ne contiene un'altra più piccola, simile ma diversa, che ne contiene un'altra ancora, e così via, per un totale di cinque bambole. L'ultima, la più piccola, è anche l'unica non vuota. Forse.
Comportamenti

Un mondo di maschere

Siamo impossibilitati a mostrarci così come siamo e viviamo in uno stato di menzogna, come ha magistralmente raccontato Pirandello in “Il fu Mattia Pascal”. Ma le maschere hanno anche un ruolo che non possiamo non considerare

«Fuori della legge e fuori di quelle particolarità, liete o tristi che sieno, per cui noi siamo noi, caro signor Pascal, non è possibile vivere. […] e io non saprei proprio dire ch’io mi sia».

Mattia Pascal, Vitangelo Moscarda sono solo alcuni degli alter ego, con cui Pirandello, già dai primi anni del 1900, mette in scena un’epoca di crisi, psicologica ma soprattutto esistenziale, che presenta i paradossi umani e ne prende in giro le rigide schematicità sociali. I due protagonisti precedentemente citati sono obbligati a vivere vite parallele e cambiare identità in un gioco di maschere che ha come finale solo il buio della mancanza di comprensione di sé e chi ci circonda.

Rileggendo questi romanzi anticamente attuali si vede la maschera dell’uomo contemporaneo, impossibilitato a mostrarsi così com’è, che vive in un teatro in cui regna un costante stato di menzogna, contro la quale finge di combattere grazie a stratagemmi macchinosi e atteggiamenti fittizi che nascondono sempre e non svelano mai. Pirandello ci insegna che, in caso di ribellione reale a questa inautenticità, si andrebbe incontro al peso del conflitto, al danno che si vivrebbe nel mettere in discussione pensieri personali discutibili. Dunque, è più facile occultare il proprio viso dietro una maschera e adagiarsi sulle ali della quotidianità.

Il rischio però è la frantumazione che da questo deriva, la continua, ansiogena rielaborazione di sé che porta un’individualità a essere uno, nessuno e centomila volti nei vari contesti, per poi chiedersi: «Ma io chi sono? Chi sono per gli altri?», fino a far cadere il labile castello di carta della nostra mente.

Il paradosso però nasce quando ci si rende conto che le apparenze sono fisiologiche della società. La filosofa Hannah Arendt diceva «Essere vivi significa essere posseduti da un impulso all’auto esibizione […], fare la propria apparizione come attori su una scena allestita per loro». Il mondo è un continuo apparire pubblicamente e sul suo palcoscenico le maschere mostrano nascondendo. Quando rivela anche solo un aspetto di realtà ne condiziona un altro mostrando qualcosa che sembra essere ma che non sempre è.

La parte che recitiamo nel mondo è sempre, a questo punto, sospetta o vittima e carnefice dell’accusa di stravolgere e deformare ciò che potrebbe apparire, se indagato più in profondità, più genuino.

Senza maschera però non ci sarebbe nulla da vedere, nulla a cui gli altri umani potrebbero appigliarsi per avere conoscenza e comunicazione.

Ecco che continua la tensione di due impulsi contraddittori ma potenti, tra il mostrarsi e il nascondersi, tra vanità e decoro, per cui quello che copre è fonte stessa dalla quale ci si esibisce. La maschera ci allontana dall’altro, ci protegge, e allo stesso modo produce una facies che ci immerge completamente nel tessuto intricato delle relazioni interpersonali. Ci permette di avere uno o più ruoli al fine di rispondere alla domanda di Pascal citata inizialmente, e anestetizzare l’ansia riguardo al proprio essere.

L’aspetto più pericoloso allora potrebbe essere quello di identificarsi completamente con una maschera o dimenticare di indossarne una. Con il suo magico aspetto di spiritualità, la maschera ci permette di esplorare il nostro potenziale, la possibilità di essere diversi con diverse identità e comportamenti volti a rivelare le parti di noi che non vogliono più essere nascoste.

Psicologa e futura psicoterapeuta, collabora per la Fondazione Lighea Onlus.

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