È di questi giorni una notizia diffusa dai giornali che riporta di una struttura sanitaria milanese che è stata denunciata da alcuni suoi operatori perché, a inizio epidemia, la dirigenza avrebbe convocato tutto il personale e, lungi dal fornire mascherine e dispositivi igienico-sanitari e dettare linee guida da seguire per evitare o arginare il contagio, avrebbe obbligato il personale a non utilizzare le mascherine per non gettare nel panico i pazienti e i loro parenti in visita, con velate minacce di richiamo disciplinare per chi avesse contravvenuto a questa disposizione. Il risultato di questa decisione a dir poco scellerata è stato un gran numero di contagi tra personale e pazienti e anche alcuni decessi.
Ciò che mi ha colpito di questa vicenda è la motivazione che la dirigenza ha dato di un provvedimento che, con ogni evidenza, va contro il diritto alla salute di pazienti e personale sanitario: la volontà di evitare la paura.
Si può evitare un’emozione fondamentale come la paura, specialmente in questo particolare momento storico, in cui tutti quanti, in misura diversa, la stiamo provando? Ma soprattutto, a un livello clinico e terapeutico, che senso ha inibire un’emozione di primaria importanza come la paura?
La paura (assieme a rabbia, tristezza, gioia, disgusto, disprezzo, sorpresa) è un’emozione primaria, cioè un’emozione presente nell’essere umano fin dalla nascita e in ogni cultura; svolge un’importante funzione adattiva perché ci porta a proteggerci da una situazione di pericolo che può essere reale, immaginata o ricordata, attivando le nostre risorse per fronteggiarla. Insomma,
se non fosse per la paura, la nostra specie si sarebbe estinta già da secoli.
Accanto a una dimensione più ancestrale della paura, che ci fa tremare di fronte alla minaccia del fuoco, a un serpente, a un burrone, c’è una dimensione più personale, che riguarda tutte quelle situazioni che abbiamo giudicato, per noi stessi, pericolose, anche se rappresentano un pericolo soltanto nella nostra immaginazione. In alcuni di questi casi, però, la reazione di paura diventa esagerata e smette di svolgere una funzione protettiva, diventando invalidante e compromettendo il corso della nostra vita: a questo proposito si parla di fobie.
Nel particolare periodo storico che stiamo vivendo, l’umanità è assediata da una minaccia impercettibile ma letale: il coronavirus, un agente microscopico che entra nel nostro corpo e può portarci alla morte, o può utilizzarci come vettore per contagiare le persone a noi vicine. Una situazione che comprensibilmente sfida la razionalità e genera paura, perché la nostra incolumità è messa a serio repentaglio da un pericolo imprevedibile e invisibile, e quindi difficilmente controllabile. E mentre cerchiamo in ogni modo di proteggerci, i media di tutti i tipi non fanno altro che bombardarci ogni giorno, ogni ora, di notizie riguardanti i nuovi contagi, i nuovi morti, i guariti, la situazione all’estero, la quarantena: da ogni parte arrivano solo ed esclusivamente notizie legate al virus e alle misure di contenimento sempre più restrittive volte ad arginare il contagio. Va da sé che, con una comunicazione martellante e spesso contraddittoria come questa, sembra che l’unica realtà ad oggi sia quella del virus.
Come psicologa posso vedere gli effetti di questa situazione medica e sociale su diverse categorie della popolazione: accanto a persone che vivono la quarantena in casa, isolate da amici e familiari, o in famiglia, o a contatto con familiari difficili (se non pericolosi: mi riferisco, in questo caso, alle sfortunate compagne di uomini violenti), ci sono coloro che stanno affrontando la pandemia all’interno di strutture residenziali di cura di diverso tipo (comunità, case-famiglia, RSA, eccetera), sia come operatori, sia come pazienti. La vicenda sopra accennata mi fa pensare a come sia inconcepibile l’idea di lasciare fuori dalle mura della struttura un’emozione come quella della paura, quando tutti, oggi, ne siamo toccati: negarlo sarebbe quanto meno patologico. Ognuno di noi, dal punto di vista di chi cura, ha paura di poter essere contagiato da un lato e, dall’altro, di poter essere veicolo di contagio per quelle persone più fragili di cui siamo chiamati a prenderci cura. L’uso di presidi igienico-sanitari come la mascherina o il sapone antibatterico può svolgere una funzione sanitaria, certo, ma anche psicologica, se fanno sentire chi li indossa più sicuro e più protetto. E va da sé che, quando un operatore si sente protetto, riesce a trasmettere meglio questa sensazione a chi lo circonda e ha bisogno di sicurezze e contenimento. Ma anche chi vive in tali strutture da degente non è un soggetto avulso dal contesto: la realtà entra nelle mura di comunità, case-famiglia, ecc., attraverso telegiornali, telefonate con i parenti, giornali, discussioni tra ospiti e operatori, e meno male che è così, non si può pensare di riabilitare una persona tenendola fuori dal consesso umano. Ma in questo caso, insieme alla realtà entra anche l’emozione che in questo momento la fa da padrona: la paura. Penso che questo sia inevitabile e che da questo non si possa prescindere. Se si vuole aiutare il paziente, se si vuole riabilitarlo, non gli si può negare l’esperienza di un’emozione, anche se spiacevole, coma la paura; mentre il mondo attorno a lui vacilla e trema, non gli si può dire di fare come se niente fosse, e non si può pretendere di fare, noi, come se niente fosse, perché sarebbe negare la realtà. La riabilitazione del paziente, a mio avviso, sta nella legittimazione dell’emozione e nell’aiuto a trovare, assieme, dei modi costruttivi e funzionali per sostenerla senza lasciarsene sopraffare: non si possono evitare certe emozioni, ma si possono trovare modi per affrontarle, valorizzando le risorse di ognuno e attivandone di nuove.