Un fotogramma dalla serie “Mare fuori”: un ragazzo con un'espressione molto dura in volto guarda attraverso una piccola apertura tra le sbarre di un cancello in una prigione; ha le mani chiuse intorno alle sbarre laterali dell'apertura; un altro ragazzo, anche lui dietro le sbarre, è alla sua sinistra e guarda un punto indefinito davanti a sé, un po' in alto, con aria forse un po' preoccupata.
Attualità

Giovani, una generazione troppo influenzabile?

L’attrazione verso il fascino del “male” non è cosa recente, ma il male criminale e mafioso di alcune serie tv ormai culto colpisce in particolar modo. Quanto sono influenzabili le nuove generazioni che si mostrano così tanto affascinate dai personaggi di Gomorra o Mare fuori?

Le nuove generazioni sono più influenzabili delle precedenti? E, se lo sono, che effetto può avere su di loro il contenuto di video, film, canzoni e videogame che celebrano l’aggressività e la violenza? Non so rispondere con certezza a queste domande, ma – con certezza – posso dire che le loro vite sono costellate da un girotondo vorticoso di impulsi audio-visivi affascinanti e seducenti ma al tempo stesso difficili da decodificare. Li troviamo in ogni ambito del quotidiano, ma dilagano soprattutto sulle piattaforme digitali di streaming.

Stimoli e visioni che nascono per esplorare realtà diverse, aprire porte, scoprire orizzonti e immaginarci altre vite. Ma perché ora più che mai tutto questo sembra scontrarsi con la messa in scena dei volti degenerati del male?

Non parlo del male in sé, inteso come alter-ego del bene, “quel” Male è da sempre oggetto di profonda seduzione.  In fondo, la pulsione di morte è alla base della psicologia freudiana, con l’idea che esista un principio di fatale attrazione verso la propria autodistruzione: il principio di piacere che ha in sé il principio di dolore. Ecco perché i cattivi dei grandi film, i villain, sono sempre stati oggetto di venerazione del grande pubblico: personaggi che spaventano e ammaliano al contempo, protagonisti di una morsa dolce-amara che affascina e disgusta, fino a innescare un’aura di empatia, finanche di simpatia tra loro stessi e gli spettatori, che ne godono inevitabilmente.

Ma il male a cui faccio riferimento ha un sapore del tutto diverso. Si potrebbe parlare di male-criminale o male-mafioso, un male che non ha nulla di straordinario, quasi spoglio, senza intuizioni geniali e senza la trama di un fine stratega, che si esperisce negli atti più comuni della vita. Penso ad alcune serie TV come Gomorra, Suburra, Mare fuori, tutti fenomeni italiani che inchiodano le nostre generazioni al PC, in un’abbuffata virtuale di episodi che narrano ogni aspetto della criminalità. Indubbiamente il binge-watching è incentivato dalla serialità coerente e frammentata della fiction, tuttavia la specificità del tema al quale il pubblico si è legato non può essere trascurata. Storie di pezzentismo sociologico che lasciano spazio alla vendetta, storie di carceri e di assassini, di ragazzi votati alla malavita, alla delinquenza e allo sbando…

E allora mi chiedo quanto un prodotto televisivo e cinematografico come quelli citati contribuisca alla formazione degli adolescenti. Quanto film e serie TV possono essere considerati paradigmi educativi e quanto invece paradigmi imitativi? Possiamo considerare questi prodotti – illimitati e incensurati – in qualche modo lesivi per la costruzione dei modelli adolescenziali?

Forse i giovani vedono in Ciro e in Edoardo (Mare fuori) quella leadership che gli adulti vedono in Joker. Forse solo la visione catartica di una rapina riesce a far esplodere il carisma latente in un ragazzo. Riccardo III e Lady Macbeth di Shakespeare, L’innominato, Heathcliff di Cime tempestose come Joker sono affascinanti, ma non suscitano comportamenti imitativi. Perché invece i mafiosi sì? Certo, a parte il Joker che appartiene a un mondo fantastico, gli altri sono personaggi di un passato ormai lontano, mentre le vite raccontate dalle serie tv sono contemporanee, ricalcano realtà che sentiamo vicine. In termini di mafiosi, non possiamo dimenticare il fascino del Padrino. In queste storie, dal padrino in poi, c’è sempre una sorta di riscatto: il fascino forse deriva dal fatto che si tratta di gente comune che attraverso la criminalità si riscatta dalla propria miseria. O perché offrono un esempio di possibile (apparente) ascesa sociale, di conquista di un potere e di denaro facile? Chiunque potrebbe essere un sicario di Gomorra, ma non potrebbe essere Riccardo III o Lord Voldemort. Il killer di Gomorra o di Suburra rischia di scatenare imitazioni forse perché coniuga, attraverso un’identità carismatica, la possibilità di riscattarsi con l’ascesa e con la vendetta…

Ma senza alcun tipo di disincentivo formale, senza nessuna forma di avvertenza che scongiuri l’emulazione di questi comportamenti, come riusciamo a essere certi che questa fame di riscatto si riassopisca alla fine dell’episodio? Qual è il deterrente più efficace perché l’imitazione non scatti?

Negli anni molti studi si sono concentrati sul rapporto tra contenuti violenti e aggressività e sull’esposizione ai contenuti mediatici violenti e all’imitazione di comportamenti disfunzionali osservati (su Fuoritestata ne abbiamo scritto qui e qui). Alcuni studi suggeriscono che la continua esposizione a modelli violenti favorisca una scelta emotiva aggressiva più facilmente, la renda più facile da seguire.

Per quel che posso osservare tra i miei coetanei, ci sono due modalità prevalenti attraverso le quali la narrazione televisiva influisce sulla vita vera: la prima è una forma indiretta, più defilata, la seconda più esplicita e quindi diretta. Ho l’impressione che i fenomeni televisivi sopra citati nella maggior parte dei casi si limitino a essere una forma di intrattenimento, in cui lo spettatore, distante dallo schermo, non risente di alcuna spinta comportamentale verso l’aggressività. Anche un giovane, per quanto forse più fragile, più malleabile di un adulto, non è detto che prende un delinquente come modello solo per aver visto una puntata di Gomorra ed esserne rimasto affascinato.

In questo caso, allora, la domanda da porsi è perché questo volto del male suscita spesso comportamenti imitativi (più nel look e nell’atteggiamento, che nella sostanza) di altri personaggi “malvagi”? Forse perché l’essere persone comuni innesca un meccanismo più immediato di immedesimazione, che si concentra tutta nell’umanità del personaggio stesso. E forse proprio la visione di una realtà così diversa mi permette di identificarmi meglio nella mia, di identità, o magari di liberarmi catarticamente dalla possibilità di ritrovare quella pulsione al male che esiste anche dentro di me.

Non è tanto il comportamento violento in sé a essere emulato quanto l’atteggiamento, il look, l’apparenza. Un’apparenza di potere e di ricchezza ostentata. Sull’emulazione della violenza entriamo in un territorio più complesso: cosa ci dive che quel comportamento violento non si sarebbbe verificato comunque? Mentre è il fascino della “riccanza” che costella in nostri schermi fino ad affermarsi sempre più rapidamente come modello. E solo così l’influenza dei modelli è diretta e incontrollata: molti giovani, fomentati da Genny e Pietro Savastano, iniziano a sognare la loro vita e l’esibizione del loro benessere falsato, vogliono il controllo e bramano quello sfoggio di potere: inseguendo questi modelli educativi distorti si tuffano in una maratona sregolata che promette loro un futuro potente e autoritario, illudendosi di trovare salvezza in quella che non è altro una drammatica deriva.

Diciannovenne, maturità classica al Parini, studia Giurisprudenza alla Statale di Milano. Ama leggere, viaggiare e danzare, con la mente e con il corpo.

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