Beppe Grillo è stato il grande sponsor del Movimento 5 Stelle che, vaffa dopo vaffa, ha portato al governo.
È senza dubbio un grande professionista della comicità, ma è responsabile di una deriva pericolosa nell’uso di un linguaggio eccessivo e senza inibizioni che, grazie a lui, è migrato dallo spazio dello spettacolo, che gli compete, in quello della dialettica politica e si è radicato pure in ambito istituzionale.
Parla anche con il corpo: la testa leonina, il passeggio in tuta da sub, l’attraversamento a nuoto dello Stretto sono ormai icone dell’immaginario collettivo.
Grillo, Sturm und Drang, luciferino funambolo della parola, cosa nasconde sotto i furori istrionici? Cosa esprime la sua rabbia indomabile e implacabile che aggredisce tutto e tutti e sostanzia di sé le invettive più sanguinose?
Sotto la furia talebana si avverte talvolta qualcosa di disperato. Si tratta forse di uno stato depressivo latente? In questo confermando l’opinione popolare secondo la quale i comici, in privato, sono persone tristi?
L’ipercinesi, la gesticolazione eccessiva, il linguaggio estremo sarebbero altrettanti antidoti all’inerzia e all’immobilismo propri della sindrome depressiva? L’aggressività rabbiosa potrebbe essere il mezzo per esorcizzare il male di vivere, il male oscuro.
Ma il mostro è solo momentaneamente assopito, non domo, rimane in agguato sul fondo. E allora, per tenerlo a bada, si fa necessario gonfiare l’enfasi, moltiplicare le iperboli, lanciarsi in invettive sempre più furiose, coniare un turpiloquio immaginifico, deformare il linguaggio in tirate che ne forzino il senso.
La comicità esasperata, violenta, urlata diventa una difesa, ricorda la rabbia insolente dei bambini che ostinatamente si oppongono alle richieste educative.