In anni lontani ( siamo nei primi sessanta del secolo scorso), alla fine del pranzo domenicale, mentre eravamo ancora tutti seduti intorno alla tavola, la mia sorella maggiore, 14 anni, chiedeva a mio padre: “Posso uscire con Patrizia?” Lui faceva mostra di pensare per qualche minuto, poi elargiva con magnanimità il permesso, accompagnato dalla prescrizione severa dell’ora del rientro.
Tutti noi, io, mia madre, la mia sorella più piccola, si rideva sotto i baffi: sapevamo bene che Patrizia non era Patrizia. Lo sapeva anche mio padre, pur se faceva finta di non saperlo.
Quante Patrizie, Antonelle, Luise sono passate…….e lui sempre imperturbabile.
Ipocrisia! grideranno in molti. Forse allora anch’io la pensavo così. Ora invece vedo tutta la saggezza di quel comportamento, che lasciava a mia sorella margini di trasgressione pur confermando il ruolo normativo paterno.
Proprio da quella scena, impressa nella memoria, adesso che sono anch’io padre, ho tratto la ferma convinzione che I GENITORI NON DEVONO VOLER SAPERE TUTTO DEI FIGLI.
Una simile affermazione può sembrare un’eresia, per lo meno suonare inopportuna nel momento in cui piangiamo una bambina di dieci anni morta per un tragico gioco alimentato da un social di successo e si richiamano i genitori alla necessità di sorvegliare con attenzione l’accesso alla rete da parte dei figli.
Non intendo certo negare il diritto, anzi il dovere, di controllare l’uso che i figli fanno dei social come di conoscere le persone che frequentano. Non è questo il punto.
Voglio piuttosto contestare la tendenza di molti genitori a porsi nella posizione di amici, che come tali aspirano a una completa conoscenza di azioni, pensieri, vissuti, fino alla condivisione di mode giovanili e di confidenze sessuali.
Così facendo, rinunciano al loro ruolo e diventano facilmente esposti al ricatto affettivo. Infatti , se in passato erano i bambini a temere la perdita dell’affetto dei genitori, oggi sono piuttosto questi ultimi a temere la perdita dell’affetto del figlio e pertanto sono incapaci di dire NO.
Il genitore maturo è chiamato a una grande dimostrazione di amore: rinunciare al desiderio di sapere tutto del proprio figlio, scavando nelle pieghe del suo cervello e delle sue viscere. Il che comporta accettarne il cambiamento attraverso le stagioni della vita, superando l’affezione al fermo immagine che lo vorrebbe sempre uguale. Deve resistere alla volontà di possedere il figlio e imparare a convivere con l’ansia di non sapere, mentre lo vede allontanarsi, impegnato a costruire la propria identità.
Lasciamo al figlio il suo segreto, sconosciuto anche a chi ne è il portatore. Quello di cui già parlava Socrate e al quale la psicanalisi ha dato nome. Indagarlo, scoprirlo, analizzarlo sarà operazione che lo impegnerà tutta la vita, senza esaurire la ricerca.