La Festa della Donna, appena passata, mi lascia una domanda che è forse retaggio della mia educazione cristiana. Come posso santificare questa Festa, in chiave laica, celebrarla davvero, renderla un’occasione, fare qualcosa di buono?
Parto da me, sto con quello che c’è, mi chiedo di cosa avrei bisogno oggi… sono incinta di 8 mesi, isolata per prevenire i contagi… avrei profondamente bisogno di sentirmi meno sola, di attivare sorellanza, di trovare confronto e conforto: c’è qualcosa del genere nei gruppi vari sui social, in tante donne che stanno vivendo la mia stessa situazione e i cui ormoni, i cui istinti, avvertono un senso di pericolo in questo isolamento. Avrei bisogno che la gente veda il mio pancione, non per una mera questione narcisistica, ma perché è il momento in cui gli occhi dell’Altro testimoniano che il mio status sta cambiando. È il momento in cui dovrei sentire che darò alla luce una persona che sarà figlia non solo mia, ma della società in cui vivo, che dovrebbe supportarmi nel compito di farla crescere.
In questi mesi ho attivato tutte le risorse che avevo a disposizione dentro e fuori, per garantire alla mia bambina di sentirsi al sicuro dentro di me, ho scelto attivamente di chi circondarmi, ho scelto un’associazione di ostetriche che mi ha accompagnato finora e mi seguirà per il parto in casa. Nonostante tutto questo non mi ha messa al riparo da incontri nefasti, seppur ridotti al minimo, con personale sanitario che in pochi minuti è riuscito a destabilizzare tutti i miei sforzi di mantenere un equilibrio mentale. Ecco, di questo ho bisogno di parlare oggi, del tema della violenza ostetrica, legata per lo più al momento del parto, ma di cui tutta l’assistenza alla gravidanza è spesso sottilmente intrisa.
Attenzione!! Questo non riguarda solo le donne!! È un tema enorme che riguarda la salute mentale in primis, la tutela dei bambini, il patto di fiducia tra il sistema sanitario e i suoi utenti, i diritti umani e il diritto alla salute.
La cascata ormonale legata alla gravidanza e soprattutto al parto, rende la donna più sensibile ai bisogni emotivi preverbali del feto e del neonato, abbatte il bisogno di aggrapparsi alla propria razionalità per permetterle di ascoltare il corpo e la sua saggezza, vero e unico faro nel favorire il parto, che è prima di tutto un atto fisiologico e non patologico.
Umiliare, ferire, sminuire, infantilizzare una donna in questo momento è un atto meschino e sottovalutato, che influisce sul travaglio, sul parto e sull’attaccamento tra la mamma e il neonato, base e matrice di tutte le relazioni future.
Siamo mammiferi e la natura ha predisposto che le madri possano bloccare il travaglio se non ci sono condizioni di sicurezza per il neonato: da un punto di vista fisiologico, l’efficacia delle contrazioni è legata ad un delicato equilibrio tra il rilascio di ossitocina e il rilascio di adrenalina, che alternano dei picchi delicatamente intermittenti, responsabili dell’aumento graduale dell’attività contrattile.
Un’eccessiva medicalizzazione, la presenza di pratiche ostetriche intrusive, di cui spesso la donna non è adeguatamente informata, o un atteggiamento umiliante e svalutante da parte del personale sanitario, possono attivare nella partoriente una percezione di pericolo con relativa risposta istintiva di attacco-fuga che innalza la secrezione di adrenalina, con conseguente arresto del travaglio (e probabile aumento di ulteriori interventi medici invasivi).
Da un punto di vista psicologico, la presenza di forte stress in un momento in cui la donna è bloccata, vulnerabile, immobilizzata, dal dolore o dalle pratiche ostetriche, in un ambiente non familiare, può creare importantissimi danni sino a indurre anche a lungo termine sintomi da PTSD (Sindrome da Stress Post Traumatico), oltre a distorsioni cognitive sulla propria incapacità di essere madre, sul sentirsi inadeguata come donna, con ripercussioni anche sulla futura salute sessuale e riproduttiva, quando queste distorsioni si incistano nelle memorie del corpo.
Non riporto qui i dati statistici sulla violenza ostetrica, poiché sono ormai molte le associazioni che se ne occupano (consiglio la pagina ovoitalia.wordpress.it, osservatorio sulla violenza ostetrica Italia, o la pagina Facebook Basta tacere: le madri hanno voce).
Quello che vorrei trasmettere è però la consapevolezza della nostra fisiologia, il diritto di conoscere la nostra fisiologia. Ciò che ogni donna vive in gravidanza non finisce in lei e con lei, ma continua creando un imprinting indelebile nelle memorie implicite della creatura che ha dato alla luce.
Non permettiamo che ci diano del tu (se non lo abbiamo richiesto), non permettiamo commenti irrispettosi della nostra forma fisica (“Signora, è ora di chiudere la bocca”, “Signora, deve smettere di ingurgitare tutto quello che trova..”), non permettiamo che medici (uomini oltretutto) ridicolizzino la fatica e il dolore del parto, che ci guardino da 3 metri di distanza sentenziando che non siamo in grado di allattare, e potrei continuare in un elenco infinito di esempi presi da esperienza diretta o testimonianze di amiche. Ribadiamo la nostra volontà di essere informate, non facciamoci schiacciare da opinioni non richieste; se non possiamo fare a meno di medicalizzare la nostra gravidanza, creiamo conoscenza e facciamo rete, confrontiamoci, cerchiamo per lo meno di lavorare su di noi per stare in contatto con quello che siamo e desideriamo.