L’Italia è in guerra.
O, almeno, così pare, stando ai mass media e ai messaggi dei nostri politici.
L’aspetto che più mi ha colpito di questa pandemia, o meglio, della sua narrazione, è stato il ricorso immediato all’immaginario bellico, a una retorica militare dal cui vocabolario si è attinto a piene mani per descrivere la situazione inaspettata e imprevedibile in cui ci troviamo tutt’oggi: il nemico, la trincea, la prima linea, i caduti, le retrovie, i rifornimenti, i sabotatori, combattere, vincere, uniti ce la faremo, un collega che collabora in un reparto Covid mi ha scritto, subodoro con un certo amor patrio: “Sembra di essere in guerra”. Insomma, tutto fa pensare che il Belpaese sia nel bel mezzo di un conflitto bellico.
Ma siamo davvero in guerra? O qui, di bellico, c’è soltanto la propaganda?
Credo che l’utilizzo della retorica bellica comporti alcuni vantaggi a livello sociale e comunicativo: innanzitutto è un gergo comprensibile a tutti, sia a chi la guerra l’ha vissuta davvero sulla propria pelle, sia a chi l’ha vista al cinema o nei videogiochi; è facile distinguere il bene dal male, il buono dal cattivo, il patriota dal nemico, e volendoci tutti identificare con i buoni, siamo più propensi a seguire le direttive che il governo ci impone per portare avanti questa lotta contro il virus. In secondo luogo, proprio in virtù di questa manichea divisione tra bene e male, annulla la complessità di una situazione come quella che stiamo vivendo, mettendo un apparente ordine alla confusione e rendendo questo momento più semplice da gestire; la possibilità di leggere la molteplicità degli aspetti che compongono il quadro odierno, di interpretare una realtà difficile e preoccupante, in questo frangente viene messa da parte: adesso, evidentemente, non c’è bisogno di voci fuori dal coro, di dissenso, ma di unità, compattezza, di un fronte unito che va in un’unica direzione.
In quest’ottica si produce la più classica delle dicotomie, a cui, in Italia, credo siamo particolarmente sensibili: l’eroe contro il nemico.
Non succede solo adesso, ma anche prima dell’emergenza Covid-19: quando i terremoti hanno distrutto interi paesi italiani, uccidendo migliaia di persone, gli eroi erano i Vigili del Fuoco e la Protezione civile, quando le estati sono funestate da violenti incendi, accanto ai pompieri c’è la Guardia Forestale, adesso i nostri eroi, i nostri martiri, sono i medici, gli infermieri e tutto il personale sanitario impegnato nell’emergenza Coronavirus.
Personalmente storco sempre il naso quando mi propinano la figura dell’eroe, è un termine che non mi ha mai molto convinta, applicato al lavoro. Non voglio certo sminuire il contributo eccezionale di queste persone, anzi, sono contenta di essere nata in Italia e di beneficiare del suo sistema sanitario e della professionalità dei suoi operatori, che il mondo davvero ci invidia. Ma credo che sia superficiale chiamarli eroi, paradossalmente potrebbe essere retoricamente fatuo. Innanzitutto, considerare queste persone come eroi, cristallizzarle in questo ruolo mitico, ci permette di non assumerci le nostre responsabilità di attori sociali: perché devo pagare le tasse, di cui beneficerebbe anche il SSN, se tanto i nostri medici e i nostri infermieri si muovono con professionalità ed efficacia anche in contesti dissestati e difficili? I nostri medici sono capaci e creativi, sanno fare di necessità virtù: un medico emiliano ha ideato un circuito che permette di usare un ventilatore per più pazienti contemporaneamente e questa scoperta è stata cruciale perché ha praticamente moltiplicato i posti in terapia intensiva. E meno male, perché in Italia, a inizio epidemia, su 60 milioni di abitanti c’erano 5000 posti in terapia intensiva; in Germania, su 80 milioni di abitanti, 28 mila (fonte L’Espresso).
Inoltre, di un eroe non siamo mai chiamati a chiederci cosa prova, cosa sente.
Un eroe è un eroe, è superiore alle emozioni. Considerare gli operatori sanitari come eroi ci consente di distogliere il nostro sguardo dalla loro fragilità,
di non vedere che anche loro hanno una paura tremenda di contagiare e di essere contagiati, di fare la scelta sbagliata perché sotto una pressione assurda, ci permette di non considerare che, adesso che la tensione si sta finalmente allentando, la loro angoscia potrebbe esplodere prepotentemente e presto ci ritroveremo con migliaia di eroi feriti, che avranno bisogno di un altro tipo di cure, più psicologiche che fisiche.
Io non credo che i nostri medici e i nostri infermieri abbiano mai desiderato di considerarsi eroi di guerra, non credo abbiano mai nutrito una votazione al martirio; credo siano dei lavoratori che semplicemente vorrebbero e si aspetterebbero di svolgere il loro mestiere nella migliore delle condizioni, con dispositivi di protezione individuali adeguati, con contratti di lavoro non precari e stipendi non sottopagati, in un sistema sanitario pubblico implementato e capillare, e non sacrificato alla privatizzazione del welfare. Allo stesso modo, i numerosi casi di contagio tra il personale ospedaliero e le morti di alcuni di questi operatori non sono da considerarsi ferite di guerra, non vanno circonfusi dall’alone luminoso e valoroso della morte in battaglia, ma sono incidenti sul lavoro, morti bianche. Come quelle dei muratori che precipitano dai ponteggi perché i cantieri non sono messi in sicurezza. Queste sono le morti bianche nel contesto ospedaliero. Come si possono evitare quelle nei cantieri, così si possono scongiurare quelle in corsia.
Sul fronte opposto a quello dell’eroe, c’è il nemico contro cui si combatte; ma siamo così tranquilli nel voler attribuire a un virus il ruolo di villain? Il virus è un agente patogeno, un organismo microcellulare, non è sicuramente dotato della razionalità necessaria a pianificare, preparare e commettere con intenzionalità e consapevolezza un’azione nefasta e aggressiva contro un altro organismo razionale; il virus… fa il virus: contagia, si propaga, fa stare male le persone e a volte le porta alla morte. Ma è nella sua natura. La retorica bellica però lo umanizza, rendendolo un avversario da combattere con ogni mezzo, anche militare (che, per altro, già molte persone stanno invocando, come se avessimo davvero bisogno della militarizzazione delle strade, dell’intervento dell’esercito nelle nostre relazioni), perché in guerra l’importante è vincere, con qualunque strumento.
Personalmente credo che il nemico sia da individuare altrove; così come i “vili traditori” della patria non possono essere semplicemente identificati nel runner solitario o in quello che cammina in una strada deserta con la mascherina calata sul mento, il vero nemico sta nel nostro sistema, che con scellerate scelte politiche, negli ultimi vent’anni ha martoriato la nostra sanità, smembrandola e smantellandola a favore di politiche di privatizzazione. Ma se continuiamo a vedere il nemico nel virus, ci chiederemo mai il perché di questi tagli? E chi ne risponderà?
E se invece di affidarci ciecamente a questa retorica altisonante iniziassimo a comportarci in maniera più civile e consapevole? Abbiamo imparato qualcosa dalle lezioni che questi eventi ci impartiscono? Dopo i terremoti che ci hanno flagellati, e ce ne saranno sicuramente altri, dopo che numerosi pompieri hanno perso la vita nell’esercizio delle loro funzioni, abbiamo iniziato a costruire in maniera davvero antisismica? O i soldi destinati a questi interventi si sono persi nei soliti giri di mazzette? Dopo questa pandemia, che cosa ne sarà del nostro sistema sanitario nazionale? Le falle sono state piuttosto evidenti, faremo qualcosa? Ma non parlo solo dei nostri politici, bensì di tutti noi.
O alla prossima occasione saremo ancora alla ricerca di eroi che ci tolgano le castagne dal fuoco? “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”, scriveva Brecht.
Un commento
Vincenzo Zappone
Buongiorno nipotina. Sei grande! Ad majora…. Zio Enzo.