Psiche

Non ci si vergogna più di niente: solo l’anonimato è infame

Quello che conta è la notorietà: è diventato più vergognoso essere nessuno che essere derisi, amorali, stupidi

«Ma non si vergogna?»
Ci scappa detto sempre più spesso degli uomini politici, ma anche di tanti personaggi pubblici, attori, cantanti, artisti, e spesso anche di qualche parente, e di qualche amico.
Sembra davvero che oggi non ci si vergogni più di nulla.

Ma che cos’è la vergogna? Secondo Nieztsche «Gli uomini non si vergognano quando pensano qualcosa di sporco, bensì quando immaginano che si attribuiscano loro questi pensieri sporchi». E sulla Treccani: «È quel sentimento di turbamento o disagio suscitato dalla coscienza o dal solo timore della riprovazione e della condanna (morale o sociale) di altri per una nostra frase, azione o comportamento».

La vergogna è un’emozione sociale che presuppone immancabilmente l’altro e il suo sguardo; ciò che si teme è infatti un giudizio di discredito o di disprezzo che possa andare contro il desiderio/bisogno di mantenere una buona immagine di sé e di ricevere valutazioni positive dagli altri.
La sensibilità alle opinioni e ai sentimenti altrui promuove la coesione sociale.
La vergogna gioca sul filo inafferrabile dell’interno/esterno, dentro/fuori, privato/pubblico, occultato/svelato…

Per quanto ci sforziamo, le sue manifestazioni fisiche – come arrossire, sudare, tremare, distogliere lo sguardo – sfuggono al nostro controllo, rivelando all’altro quello che invece vorremmo celare.

In questi casi, più o meno consapevolmente, ci confrontiamo con i modelli e le norme elaborate nella comunità cui apparteniamo e avvertiamo la mancata aderenza del nostro comportamento a determinati standard sociali. Ai nostri giorni però, con l’avvento dell’iperindividualismo e la caduta dell’autorevolezza della figura paterna e delle istituzioni, famiglia, Stato, Chiesa, ogni principio di autorità è stato sostituito dall’io, che si erge a unico giudice di sé stesso. Oggi che i diktat condivisi si esauriscono nel relativismo e nel narcisismo autoreferenziale, oggi che impera il “tutto è concesso” nel nome del proprio interesse personale e del proprio godimento, dov’è andata a finire la nostra beneamata, umile e genuina vergogna?

«Le emozioni, che sono costruzioni sociali, non spariscono mai del tutto. Piuttosto si trasformano, cambiano di intensità, di oggetto e di espressione a seconda delle epoche, dei contesti storici e culturali. Bisogna solo scoprire dove la vergogna è andata a finire e come si è trasformata nella società della spettacolarizzazione e dell’individualismo esasperato» (Gabriella Turnaturi, 2012).

Quel desiderio di farsi piccoli e invisibili suscitato dalla vergogna è oggi poco di moda, troppo in contrasto con il bisogno di esibizione, sia anche delle proprie fragilità. Per esistere oggi sembra necessario essere notati: “purché se ne parli”. La cultura televisiva e gli show ci hanno insegnato che esser smascherati, anche nelle pieghe più intime, non è poi così drammatico perché ci toglie da un ben più doloroso anonimato. Nel nostro tempo è diventato più vergognoso essere nessuno che essere derisi, amorali, stupidi.

La vergogna oggi non riguarda più un aspetto etico-morale come in passato (tradimento del proprio onore, della parola data o dei doveri legati al proprio ruolo), bensì si concentra tutta sul non-successo/non-visibilità. La disonestà, la volgarità, la superficialità, la mediocrità, quando sono premiate dalla notorietà generano addirittura ammirazione.

Laureata in Psicologia Clinica. Collabora con Fondazione Lighea Onlus. Vorrebbe conciliare la creatività nelle sue varie forme alla psicologia.

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