Attualità

Dopo il dramma è assurdo dar la colpa alle arti marziali

Psicologa e praticante di Muay thai, difendo la pratica di questi sport messi sotto accusa dopo l’omicidio del giovane Willy

Il recente omicidio del giovane Willy da parte di un branco di criminali ha fatto sì che i media, per cercare una spiegazione a tale brutale violenza, mettessero più o meno esplicitamente sotto accusa la pratica delle arti marziali.  Se un tempo si sospettava che fossero i videogiochi di guerra a renderci violenti (la musica metal, invece, ci faceva satanisti), adesso sembra che la colpa sia delle arti marziali: gli assassini, infatti, praticavano MMA (arti marziali miste: uno sport da combattimento che prevede l’uso di tecniche mutuate da altre discipline). Ho letto inviti, da parte di giornalisti, a chiudere le palestre in cui si praticano questi sport, come se l’esercizio delle arti marziali o degli sport da combattimento produca necessariamente delle bestie assetate di sangue e vietarli sia la soluzione. 

Da psicologa e da praticante di Muay thai (l’arte marziale thailandese) non posso che trovare ridicola questa concezione delle arti marziali e degli sport da combattimento come forme di violenza: è una idea limitata e superficiale di questo mondo, probabilmente alimentata anche da pregiudizi e ignoranza.

 Credo invece che le arti marziali nulla abbiano a che fare con quanto accaduto; gli assassini non si sono accaniti sul povero Willy perché praticavano arti marziali, ma hanno usato quelle tecniche perché quelle e non altre erano le armi che avevano a disposizione in quel momento.

Piuttosto il discorso va fatto a monte e riguarda la lacunosa costruzione della propria identità da parte di alcuni soggetti.

Alla base di questo massacro, a mio parere, c’è un vuoto esistenziale, una mancanza di identità per costruire la quale c’è bisogno di identificare un nemico. Senza un nemico da sopraffare non si esiste, la propria vita non trova espressione, come se questo fosse l’unico modo per farsi valere, per esprimersi come persona. 

È come se non si fosse saputa costruire l’immagine di uomo e, per sopperire a questa mancanza, ci si fosse appellati solamente al corpo, che è quanto di più immediato abbiamo a disposizione. Non emozioni, non sentimenti, non capacità di dialogo, di confronto, ma il mero involucro che possediamo: in questi casi ci si trova davanti a un vero e proprio culto del corpo, usato come strumento per affermarsi e, spesso, come amplificatore degli stereotipi di genere, per cui l’uomo è identificato con i muscoli che più sono torniti, più lo rendono potente, e la donna con i suoi caratteri sessuali come seno e labbra: più sono voluminosi e prorompenti, più è desiderabile.

In una cultura che si ferma al corpo e lo innalza a espressione di potere, va da sé che chiunque differisca da questo modello e cerchi di immettere una perturbazione in questo sistema, di portare una diversità, sia vissuto come una minaccia, un pericolo da eliminare.

In quest’ottica, dunque, le arti marziali vengono considerate come un modo “figo” e duro di farsi valere e affermarsi, una serie di tecniche per abbattere il “nemico” e vincere sugli altri.

È ovvio che le arti marziali e gli sport da combattimento siano tutt’altro: sono soprattutto discipline che, attraverso il sacrificio, la fatica e il duro allenamento, insegnano l’autocontrollo e il rispetto per l’avversario (avversario, non nemico); la violenza che viene praticata sul ring o nel dojo è sempre contenuta da regole di combattimento e controllata da arbitro e giudici. Se praticate bene, queste discipline possono migliorare significativamente la salute fisica, il controllo, la meditazione, la responsabilizzazione sull’uso della forza, l’acquisizione di una maggiore sicurezza delle proprie capacità, e la consapevolezza dei propri limiti.

Le arti marziali e gli sport da combattimento, lungi dal promuovere l’uso della violenza, spesso si pongono come valida alternativa ad essa : molte sono le storie di persone comuni e di atleti diventati famosi, a cui le arti marziali hanno dato un modo per uscire da contesti di vita difficili e canalizzare e sublimare l’aggressività in maniera controllata e finalizzata alla crescita personale e allo sforzo agonistico, invece di farla sfociare nella violenza vera e propria: penso alla  palestra Star Judo Club di Gianni Maddaloni, che a Scampia toglie i ragazzi dalla strada e dalle maglie della camorra, o quella di boxe di Davide Giordano che fa lo stesso a Villabate, in Sicilia. 

Il ruolo del Maestro è fondamentale, in questo caso, perché lavora sull’autostima, sulla capacità di controllare rabbia e aggressività e insegna che le arti marziali sono una disciplina e una filosofia da apprendere attraverso allenamento e sacrificio, e non un’arma da acquisire in poche settimane e applicare fuori dalla palestra e, anche, che i risultati si vedono solo con pazienza, costanza e duro lavoro.

Non sono violenti  gli sport da combattimento e  le arti marziali: sono violente le persone che li applicano contro un innocente. E nel caso del giovane Willy è lampante come, alla fine, il vero fighter sia stato proprio lui che, armato solo del suo coraggio, ha affrontato il branco per proteggere un amico.

Psicologa e Psicoterapeuta. Si occupa di terapia familiare, di coppia e del singolo individuo. Collabora con Fondazione Lighea Onlus.

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