«[…] ai tori la natura ha dato le corna, ai cavalli le unghie,/alle volpi velocità, ai leoni una temibile dentatura;/ha fatto i pesci adatti a nuotare, gli uccelli a volare,/agli uomini ha dato il senno, alle donne nulla. Ma ecco/che alle donne invece delle lance, invece degli scudi,/dà la bellezza. E la donna bella vince ferro e fuoco»
Questi versi di un tardo imitatore di Anacreonte, poeta greco vissuto tra il sesto e il quinto secolo avanti Cristo, si prestano a interpretazioni contrastanti.
Possono essere letti, al di là dell’apparente omaggio, come un giudizio riduttivo sulla natura femminile: al di fuori della bellezza la donna non ha nulla, solo grazie a quella può godere di considerazione, non per il suo pensiero, il suo cuore, la sua anima. Mancando la bellezza è ridotta a un niente. Così potrebbero suonare i versi a un orecchio contemporaneo.
Ma i greci antichi avevano coniato una parola (kalokagathia), intraducibile in altra lingua, che fondeva in sé i concetti di bello e buono. Secondo tale pensiero la bellezza delle forme era specchio fedele, manifestazione sensibile di bellezza interiore, ovvero bontà, virtù, nobiltà d’animo. La divaricazione tra bellezza estetica e virtù morale avviene solo con l’imporsi del Cristianesimo, per il quale la bella apparenza è sempre sospetta in quanto strumento del demonio, mezzo di seduzione diabolica per traviare gli animi.
Stando così le cose, è più probabile che il nostro poeta volesse sinceramente celebrare la bellezza quale specificità femminile.
Penso che questa sintesi di bellezza e armonia interiore, che «vince ferro e fuoco», vada oggi difesa e preservata rispetto all’imitazione di un modello maschile segnato dalla competitività.
Non inseguendo il modo di essere maschile, ma mantenendo ed esaltando la specificità della sua natura, la donna può trovarsi infatti in posizione di parità con l’uomo.
Non si intende minimizzare il problema delle disparità in campo lavorativo ed economico, né negare le pesanti discriminazioni in atto in alcuni paesi, ma considerando il confronto tra i sessi dal punto di vista psichico, non si riesce a comprendere come si possa percepire un’inferiorità femminile.
Risale a Freud la teoria dell’invidia del pene che tale sentimento di inferiorità rivelerebbe. Solo una società profondamente maschilista poteva formularne il concetto e crederci.
Personalmente trovo tale invidia risibile rispetto alla capacità, quella sì degna di invidia, di procreare, di formare un essere nel proprio grembo, di essere attrice protagonista di una operazione in cui il maschio è solo comparsa (ancorché necessaria).
Io questa prerogativa della donna l’ho sempre invidiata e mi meraviglio che gli individui del mio stesso sesso non provino tutti analoghi sentimenti. Il possesso di un particolare anatomico non può competere con il miracolo della creazione della vita.