Luigi Di Maio o la sindrome della fortezza assediata.
Il Ministro si sente accerchiato, non da uno ma da cento draghi: l’infido Moscovicì, il grigio Juncker, lo spread dalla lingua biforcuta, le losche agenzie di rating, i misteriosi poteri forti, il web che si scatena ogni volta che lui apre bocca, gli ambigui alleati, la perfida Bruxelles… manca solo il Papa (almeno per ora).
Chiama a raccolta i suoi e li esorta a formare la testuggine romana: i seguaci del Movimento che ha sempre orgogliosamente rifiutato di chiamarsi partito hanno scoperto con stupore di essere arruolati in un esercito.
Di Maio dice tutto e il contrario di tutto, afferma e smentisce: minaccia di impeachment il Presidente della Repubblica e il giorno dopo lo elogia con devozione, denuncia una misteriosa manina traditrice e poi vota il DDL sicurezza, afferma imprescindibile abolire la prescrizione e poi consente a rimandare il provvedimento a un tempo incerto…
Mancanza di coerenza? Al contrario, estrema coerenza alla recita che mette quotidianamente in scena seguendo ogni giorno un copione diverso, pur sempre fedele al genere sceneggiata napoletana, a lui particolarmente congeniale, un genere di teatro che esaspera i toni, ma è scopertamente finzione. Nella sceneggiata si minacciano sfracelli, ma poi tutto si aggiusta: gli accenti drammatici hanno qualcosa di insincero, sotto l’apparenza tragica si indovina la farsa.