«Ah, fai la psicologa? Allora devo fare attenzione a quello che dico quando parlo con te». È la frase che mi sono sentita dire, quasi identica, dai più vari interlocutori sin da quando ero una studentessa al primo anno di università.
Che fossero giovani, vecchi, donne o uomini il ritornello era sempre lo stesso: bisogna fare attenzione. A cosa? È la domanda che avrei dovuto rivolgere loro: a cosa bisogna stare attenti? O meglio, di cosa si ha paura?
Trovandosi a interloquire con un esperto del settore è come se di colpo le persone si sentissero più vulnerabili, più scoperte, più nude di quello che credevano. Sentono il bisogno di proteggersi, di tutelare la loro parte più profonda che improvvisamente percepiscono tutta esposta in superficie, come se il famoso iceberg fosse emerso interamente dalle acque.
Quella parte così intima, a tratti sconosciuta anche a loro stessi, se la sentono stampata negli occhi, sulla pelle, la immaginano svelarsi nei loro gesti, totalmente alle mercé dell’altro.
Mi torna alla mente un racconto di mio padre; quando era piccolo sua mamma lo ammoniva: «Se dici le bugie si capisce dagli occhi» e allora lui, quando mentiva, portava una mano sulla fronte e nascondeva le palpebre.
Anche adesso diventa un gioco di sguardi, dello sguardo dell’Altro su di me, uno sguardo che mi può leggere. Le persone appena conosciute che dicono «ma tanto tu hai già capito…» e non hanno detto nulla, sono un po’ come quel mio piccolo papà che si copriva gli occhi. Nell’incontrare uno psicologo la loro paura, ma allo stesso tempo speranza, è che il suo sguardo sia onnisciente come lo era quello di mia nonna. Gli addetti ai lavori potrebbero chiamarlo transfert. E contro transferale è il mio sentimento di sentirmi allo stesso tempo lusingata e infastidita quando mi sento dire queste cose.
«Hai già capito tutto», «Non posso parlare troppo»: in queste frasi si cela tutta l’ambivalenza che si prova di fronte allo psicologo.
Da una parte si nutre il desiderio di essere capiti “con uno sguardo”, in modo totalizzante, quasi fusionale e, dall’altra, si provano paura e sospetto. Il timore di essere “scoperti” dallo psicologo (demonizzato) va di pari passo proprio con la fantasia che egli (idealizzato) possa Com-prenderci, come nella fusione mamma-bambino. Quest’assenza di barriere attrae e spaventa. Lo psicologo, il Soggetto Supposto Sapere (Lacan, 1958), anche per un discorso di immagine sociale, attira immediatamente su di sé proiezioni genitoriali, edipiche.
Questo desiderio e questa paura poggiano su un terreno comune. Alla base vi è lo stesso presupposto implicito: l’intuizione dell’esistenza di qualcosa in noi stessi di sconosciuto, di inconscio. Eppure oggi l’atteggiamento generale nei confronti di questa disciplina, di questa scienza non-scienza che è la Psicologia, è tutt’altro che positivo e accogliente. A livello sociale la figura dello psicologo è spesso sottovalutata, a volte pubblicamente screditata. Prevale la paura, e lui diventa un pericolo da esorcizzare sminuendolo.