Amati matti

Nella casa di Pangloss

di Giulia Orecchia

Bisogna stare molto attenti: a quest’ora del mattino i raggi di luce che penetrano dalle fessure delle gelosie hanno la sottigliezza delle lame, le facce affilate dei cavalieri di Velasquez. Non hanno impugnatura, però. E sì che sarebbe piacevole brandirli e farli roteare tutt’intorno come i fari impazziti di una vettura che precipita in un orrido. Sono già le sette e mezza e tra poco la madre verrà a portarmi la brioche e il cappuccino. E spalancherà le persiane e scompariranno le lame. Qui ci sarà la luce, una luce tutta eguale, noiosa, come stare dentro una lampadina. Non riesco a capire se sarà meglio o peggio. Chi era? Goethe? Non c’è vita senza luce. No. Goethe era: non c’è vita senza musica. La musica si, quella la conosco. Non c’è nulla di più nero e di più buio di un pianoforte. I tasti bianchi sono uno sbaglio. Quando lo suonavo, in casa di quello strano signore dai capelli vagamente abissini, tutti stavano ad ascoltarmi. Chissà perché mi chiedevano, gli altri ospiti, di suonare? Lo sanno che solo il pianoforte può chiedermelo. Bisogna stare attenti a non cedere: si fanno brutte figure a essere condiscendenti. È d’uopo stare alla larga. Anzi, al largo, di notte con una lampara, così tutti vedono il mare e nessuno vede in faccia l’altro. E poi questa storia che mi ripeteva il padre: «Vai a pescare, fai qualcosa». Fare cosa? Mi domando. Potrei fare tutto, ma chi mi obbliga? E inoltre se non fossi capace di fare nulla? Questo padre vorrebbe che fossi come lui, ma esiste forse un modello da seguire fedelmente? Bisognerebbe possederne le caratteristiche fondamentali. Infine chi ha un modello, copia. È più onesto chi non fa nulla. E sta in silenzio. Ma ecco i passi della madre, che arriva con il cappuccino. Povera mamma, anche lei senza di me cosa farebbe? Perderebbe le sue ore tra l’insegnamento e le cure della casa. Che tristezza: «Buon giorno, mamma».

Quando ero là, a Milano, in quella casa bella, con il terrazzo, e seguivo un corso di antiquariato, e andavo in palestra a fare dello sport; anche allora la madre di tanto in tanto veniva la mattina da Novara, povera donna, per portarmi il cappuccino fatto come lo voglio io. Poi se ne tornava via, ed era triste, si vedeva che le spiaceva lasciarmi. Uno strano essere, l’operatrice, che pareva mi volesse bene, ma di tanto in tanto si divertiva a cambiarmi le carte in tavola: modificava il programma della mia giornata. Lei diceva che no, che si atteneva scrupolosamente a quanto era stato stabilito. Ognuno di noi, in quella casa, collaborava a redigere il programma di ogni ospite. Avevamo belle stanze, un gran salotto con il pianoforte, con i suoi tasti d’avorio, bianchi. Ma può essere che fossero di plastica. E vivevamo bene: si girava il mondo di giorno, si andava fuori la sera, a teatro o al cinema. Si cenava tutti insieme.

Sto dicendo una sciocchezza, ma mi pare che allora ero diventato quasi importante per gli altri, neanche fossi un leader, capo.

Ma forse aveva ragione la madre, io non sono nessuno, cioè sono un genio, ma gli altri non mi capiranno mai. C’era anche questa signora, questo strano essere, una donna. La madre, le donne. Mi ricorda Voltaire. Ho passato la vita leggendo, ore dopo ore, e suonando. Leggendo Voltaire. Un giorno Luigi XV chiese alla sua favorita come si costruivano le calze di seta che lei indossava. E la Pompadour rispose che bastava leggere l’Enciclopedia e Voltaire per sapere come la seta diventava calze. Voltaire e l’ottimismo di Candide. Ecco perché chiamo quel signore con i capelli vagamente abissini col nome di Pangloss. Pangloss è lo stravagante filosofo, appunto, del Candide. Hanno sempre una risposta, le donne, che ossessione, e che passione. Sono la mia vera passione. Emanano odori che non si trovano altrove, e hanno incredibili cose nascoste sotto i vestiti. Non ne ho mai avuta una, ed è normale. Non sono tipo io. Già mia madre. Mia madre è la donna, e io per lei sono l’uomo. Le altre donne sono strane. Voltaire scrive che ai suoi tempi le suore di ordini diversi si sfidavano alla corsa con l’uovo. Ogni suora teneva stretto, contraendo i muscoli, un uovo tra le chiappe. Quelle cui cadeva l’uovo venivano eliminate. Finché ne restava una sola, la vincitrice. Io non ho mai visto le chiappe di una donna, una volta quelle di mia madre, di sfuggita.

Prima di andare là, in quella casa milanese col grande salotto, ero all’università. C’erano tante ragazze, e qualcuna era bella. Nessuna mi guardava, e sì che non sono brutto, la mamma mi dice spesso che sono affascinante e intelligente. È stato allora che ho capito che avevo poco a che fare con il mondo. L’università è bella ma non sono mai riuscito a dare un esame. Ho studiato e letto, sempre, ma chi lo dà un esame? Bisogna essere diversi, per dare un esame. E c’erano queste ragazze, molto differenti da quella che poi, nella casa milanese, mi stava appresso. Ma non ho legato con nessuna. Aveva ragione la madre: «La tua vita è qui con me, figlio mio». Lei mi difendeva quando il padre mi dava del fannullone. Io e la mamma non ci lasceremo mai. Forse l’unica donna che mi ha procurato una vera emozione è stata Giovannella. Ero molto giovane. Un giorno la trovai per strada, e piangeva. Tentai di parlarle, forse allungai una mano. Ma lei continuava a piangere e piangere, finché non capii che stava trasferendo su di me tutte le sue angosce. E allora gambe e braccia, le mie gambe e le mie braccia, incominciarono a muoversi senza che io riuscissi a comandarle, in movimenti disarticolati come quelli di una marionetta. Andai a casa, e ricominciò quella impossibile necessità di agitare le braccia. Aprii la portafinestra del salone e parlai alla gente che andava radunandosi sotto il balcone. Finalmente mi sfogai. Poi, in altri tempi, ma forse erano quegli stessi tempi, conobbi una ragazza all’università. Mi era molto cara. Parlava con la erre, cioè non diceva la erre. La arrotava. Aveva piccoli seni, capelli neri, sembrava fatta di cristallo. Una volta le ho stretto la mano e lei si è sgretolata, come succede nei film quando crolla un grattacielo. Mi riusciva qualche volta di dirle qualche cosa, ma solo se lei non c’era. In fondo la vera ossessione era di guardarla. Anche se non era come la mia mamma, che si poteva toccare e sapeva toccarmi, che ha dita affusolate e voce suadente. Che mi vestiva quando ero piccolo. Che ha litigato col padre per colpa mia. Come quella lite che fece quando mi portarono in una clinica e dissero che avevo la “crisi mistica”. Ma cosa continuo a preoccuparmi: ormai è ora di pranzo, e la madre mi porterà una sogliola fatta come dio comanda. Poi ci sarà il pomeriggio. Io me ne starò qui sereno, forse leggerò qualcosa. Ho ancora qualche testo di quelli che studiavo quando mi interessavo di psicoanalisi.
Era quando stavo nella casa milanese di Pangloss, col salone e il terrazzo. Ricordando quei tempi ogni tanto mi vengono come dei tic. Mi si stirano le labbra, mi si incupisce lo sguardo. Mi sono visto allo specchio, divento come un attore che fa Mr. Hyde. Curioso che non mi crescano i peli sulle mani. Stavo meglio allora, sto meglio adesso? Dovrei uscire da questa stanza, dove peraltro sto benissimo, e magari rivedere quella donna che mi stava vicina e che mi accompagnava al cinema o al teatro? Oddio, si potrebbe fare, ma la madre resterebbe da sola, e sarebbe costretta, povera donna, a venire al mattino a portarmi la mia brioche fino a Milano. Meglio starmene qui tranquillo in attesa della cena. In fondo ho un sacco di cose da fare qui, altro che non fare niente come dice il padre. Da leggere, da suonare, da ascoltare musica, da aspettare la madre, da vedere le fotografie, ne ho molte e, ah ah, non sono brutte, ho da meditare. Cosa avrò per cena? Una porchetta al forno? Vedi, sono perfino spiritoso. Giovannella, e quella universitaria che si sgretolava come i grattacieli. Cosa me ne importa. Sento già la mamma che è tornata dalle compere. Tra poco avrà da dire col padre, su di me naturalmente. Quando me ne sono andato da quella casa col terrazzo, è stata lei a farmelo capire: che ci stai a fare qui? La tua casa ti aspetta. E io ti aspetto. Forse vedremo insieme un po’ di televisione, vedremo quello che succede fuori, in quel mondo di squilibrati, dove ogni valore familiare non ha più senso. Poi mi accompagnerà a letto. E chiuderà le imposte. Domani ci saranno di nuovo i cavalieri di Velasquez. Io e la mamma stiamo bene insieme. Di che cosa mi può accusare. Sento le labbra che si stirano, le sopracciglia si abbassano, vediamo se spuntano i peli sul dorso delle mani. Non ho voluto io essere figlio di mia madre. Certe stupidaggini non le faccio. Io non avrei messo dei tasti bianchi in un pianoforte.

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